Lo abbiamo visto e rivisto un po’ tutti, nelle foto sui giornali e nelle riprese mandate in onda fino all’esaurimento - il nostro - in tv. Abbiamo visto e rivisto Massimo Cialente, primo cittadino piddino dell’Aquila, guidare la folla nel tentativo di forzare i cordoni di polizia messi a difesa della zona rossa della Capitale, quella che racchiude i centri del potere e i cosiddetti punti sensibili.
Motivo della protesta e di tutto ciò che ne è seguito - forze dell’ordine duramente impegnate, due zucche ammaccate e un capitombolo dello stesso Cialente sui sanpietrini - è stato però, a ben vedere, un «non motivo». Ovvero, ottenere lo scaglionamento su più anni del pagamento delle tasse. Diciamo «non motivo» dal momento che, proprio nelle stesse ore in cui Cialente spingeva i suoi fin sotto ai manganelli, quello scaglionamento veniva deciso dal governo. Che lo ha portato dai cinque anni della precedente norma approvata in Commissione, ai dieci annunciati ieri dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Questo, grazie a uno specifico emendamento al decreto legge sulla manovra.
Eppure, per ottenere ciò che già stavano ottenendo (ma non bastava chiedere, informarsi un po’ meglio prima?) abbiamo visto andare in scena nelle vie di Roma un’esercitazione d’assalto. Una missione di stampo quasi militare grazie a quella mano, sempre generosamente concessa quando si tratta di usare poi tutte le altre, venuta dai centri sociali. E allora via che si corre, si carica e si spintona. Prima puntando a Palazzo Chigi, poi al Senato e infine, su quella stessa strada - «perché no, già che ci siamo?», si saranno chiesti i nostri eroi -, contro Palazzo Grazioli, residenza privata del premier. Eppure, se mi consentite un balzo di oltre trent’anni nel passato, posso assicurarvi che non c’erano sindaci friulani, nel 1976, a protestare nelle vie di Roma. E non c’erano nemmeno i friulani terremotati. Che non avevano certo le case nuove che ha avuto in meno di un anno l’Abruzzo, ma avevano ben altro da fare che protestare. Qualcosa di ben più grave e di più serio. Chi scrive è abbastanza vecio del mestiere per aver vissuto quei giorni in prima persona (con il bloc notes in mano e in fondo al cuore l’angoscia compressa del figlio di quella stessa terra), ma fortunatamente è ancora abbastanza fresco per ricordarsene benissimo. Fotogramma dopo fotogramma. Ricordo così come quei sindaci fossero rimasti tutti fra i mozziconi dei paesi distrutti, a lavorare e a sudare, fianco a fianco a quella gente così incredibilmente uguale a loro: di poche parole e di tanti fatti. Come lo sono del resto i veri abruzzesi. Ma, a differenza dell’attuale primo cittadino dell’Aquila, azzimato ed esagitato neo Masaniello in grisaglia e cravatta regimental (evidentemente è così che la moda impone di andare oggi all’assalto del Palazzo d’Inverno), quei suoi colleghi di Gemona e di Tarcento, di Buia o di Majano, avevano le barbe lunghe di chi non avrebbe mai avuto il tempo e nemmeno l’acqua per radersi. Non potevano nascondere le occhiaie profonde di chi aveva trattenuto troppe lacrime per dignità e dormito troppo poche ore per pura forza di volontà. E indossavano da settimane gli stessi jeans laceri e le stesse scarpacce impolverate dalla prolungata sopravvivenza in mezzo alle macerie. Il resto delle loro cose, come quelle dei loro amministrati, era rimasto là sotto, sotto i grebani delle case sbriciolate in pochi secondi dall’Orcolat, il mostro orrifico e favolistico del terremoto raccontato per generazioni ai loro nipotini dai nonni di quella terra struggente e ballerina.
Ma ricordo anche altro, che stride con la canea romana di mercoledì. Ricordo la gente silenziosa, in fila davanti all’Intendenza di Finanza di Udine, solo poche settimane dopo quel sisma che in 55 secondi aveva fatto mille morti, tremila feriti, 100mila senzatetto, 6.500 imprese disastrate e 18mila disoccupati. Erano i friulani in coda, come tutti gli anni in quel periodo, in attesa di pagare le tasse che anche il governo di allora avrebbe però di lì a poco sospeso. Loro, però, non lo sapevano. Ma si erano messi in fila comunque. Non felici di farlo, men che meno per rendersi belli, ma unicamente perché sì, così si fa, così si è sempre fatto, così si deve fare. Anche perché lo Stato, a loro, non aveva mai regalato niente.
Di quella civilissima coda ne scrisse, allora, il Giornale. E ne scrissero increduli tutti gli altri quotidiani nazionali. Così come raccontarono di quella vecchietta tutta in nero, rimasta anche lei senza casa.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.