Ankara delusa dal cambio di rotta dei Venticinque

Alberto Indelicato

È fin troppo facile prevedere che il 3 ottobre prossimo, data dell’incontro tra l’Unione Europea e la Turchia, la questione dell’ammissione di quest’ultima nella famiglia europea non farà nessun passo avanti. Al contrario è possibile che vengano alla luce nuovi contrasti e incomprensioni, dato che Ankara si riterrà frustrata nelle sue aspettative. Le erano stati assicurati notevoli progressi se avesse soddisfatto alcune condizioni relative ai diritti umani, al sistema giudiziario, ivi compresa la abolizione della pena di morte, e alla fine delle discriminazioni e delle persecuzioni dei curdi. Tutte richieste che il governo turco ha soddisfatto.
Poi c’era la questione di Cipro greca, già membro dell’Unione, e i turchi hanno sottoscritto il protocollo che estende a tutti i membri dell’Ue, compresa dunque Nicosia, il suo accordo di associazione. Ma con una strana interpretazione delle norme di diritto internazionale il governo di Ankara ha chiarito che la sua firma non implicava alcun riconoscimento dello Stato greco-cipriota e ha ricordato che il piano di riunificazione dell’isola proposto dall’Onu era stato approvato dalla popolazione turca e bocciato da quella greca di Cipro. I 25 hanno ammesso la validità della tesi, ma hanno fatto finta di credere ottimisticamente che il protocollo poteva comunque essere considerato come un primo passo verso la soluzione del problema cipriota.
Ankara si rende conto che le condizioni favorevoli che riteneva acquisite sono ormai cambiate e che tra i 25 sono sorte gravi perplessità. Passi per quelle di Austria (un ricordo dell’assedio di Vienna del 1683?), della Slovacchia, della Slovenia e dell’Ungheria, interpretabili come derivanti dal «complesso dello scompartimento ferroviario», per cui i nuovi venuti non sono visti di buon occhio da coloro che già lo occupavano. Il problema riguarda i due grandi Paesi che si erano battuti per l’adesione e che ora sono molto più cauti se non addirittura ostili. Angela Merkel ha già dichiarato che se dovesse vincere le elezioni del 18 settembre prossimo - il che è probabile - proporrà al massimo un accordo di associazione privilegiata per la Turchia.
Quanto alla Francia, la clamorosa marcia indietro di Chirac ha ferito e umiliato il governo turco. Le ragioni sono note: il presidente francese, dopo le batoste del referendum sul trattato costituzionale e la bocciatura di Parigi quale sede dei giochi olimpici del 2012, ha la sensazione di essere sempre più lontano dai sentimenti popolari e vorrebbe porre rimedio a questo divorzio inseguendo l'opinione pubblica. Ciò gli permetterebbe ancora una volta di opporsi agli Stati Uniti che fanno pressioni in favore di Ankara, sia direttamente sia attraverso il Regno Unito.
L’appoggio inglese all’adesione turca può sembrare però un regalo avvelenato: per Londra l’ingresso turco può servire ad «annacquare» le istituzioni europee.


In queste circostanze la classe politica di Ankara ha ragione di chiedersi se gli europei, e specialmente la Commissione, quella presente e quella precedente, non l’abbiano presa in giro e magari intendano presentare sempre nuove condizioni (come ad esempio il riconoscimento del massacro degli armeni nel 1915) per allontanare e se possibile evitare una decisione sgradita se non ai governi certamente a molte popolazioni del Continente. Di fronte alle ambiguità dell’Eliseo ad Ankara ha avuto fortuna uno slogan: «Meglio la franchezza della Merkel che le ipocrisie di Chirac».

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