Anni ’50, quando i nuovi pittori barattavano le tele per un risotto

Egidio Sterpa

Dopo Il crollo delle aspettative di Luca Doninelli, libro delizioso ma anche un po’ spietato forse per troppo amore verso la città, ecco un libro altrettanto piacevole su Milano, Commedianti a Milano di Vittorio Orsenigo. Va letto perché è il racconto della Milano degli anni Cinquanta, una città con molte macerie della guerra, popolata di giovani con tanti sogni e alla ricerca di orizzonti.
A questo libro, che non è proprio un romanzo ma il racconto delle chimere e delle illusioni di una generazione, la cui adolescenza era stata segnata dai triboli della guerra, potrebbe adattarsi una nota autobiografica di Alda Merini, la poetessa più autenticamente ambrosiana, che in un’intervista ha detto felicemente: «Ho avuto una giovinezza bella e sofferta». Proprio così, belli quegli anni, sofferti soprattutto dai giovani perché la loro vita, pur spensierata, non fu certo facile. Non era ancora arrivato il «miracolo economico». Orsenigo faceva parte di una pattuglia di intellettuali che si aggiravano fra mostre di pittura, spettacoli teatrali, tentativi di scrittura, ambizioni poetiche, alla ricerca di gloria o almeno di una affermazione. Una generazione che si muoveva intorno a intelligenze dai nomi entrati nella mitologia culturale di Milano: il filosofo Antonio Banfi, i poeti Quasimodo, Solmi, Sinisgalli, gli scrittori Vittorini, Savinio, Lalla Romano, Pontiggia, gli astri nascenti del teatro Grassi e Strehler, i critici Giansiro Ferrata e Dal Fabbro, il giovanissimo, quasi adolescente, Guido Vergani, che viveva nell’ombra del grande papà Orio. Erano gli anni dell’arrivo a Milano di Montale, chiamato dal Corriere (1948), ancora tutto proiettato verso la Liguria. Viveva allora all’Hotel Ambasciatori e solo più tardi aprì casa in via Bigli.
Si ritrova in questo libro la Milano del bar Giamaica, delle trattorie dove i pittori barattavano tele contro risotti, bistecche, ossibuchi, dove gli aspiranti scrittori e poeti si incontravano con librai mitici ormai scomparsi (Branduani, Aldrovandi e Zanotti), bohémien che si accontentavano di cappuccino e brioche al bar Pedrini, di un americano in due al Gin Rosa, di un magro e dietetico pasto in latteria.

Straordinario, simpatico e estroso personaggio, Vittorio Orsenigo, che in quella Milano pubblicava racconti, scriveva operette teatrali, si cimentava come regista e addirittura partecipava a mostre collettive con artisti divenuti famosi, da Biennale, qualcuno addirittura da Tate Gallery: Baj, Fontana, Fabbri, Munari, Arnaldo e Giò Pomodoro. Il suo è un racconto che affascina, affidato alla memoria e all’ispirazione, indubbiamente eccezionale. Da leggere, sì.

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