ANNIBALE & SCIPIONE La guerra come equilibrio

ANNIBALE & SCIPIONE La guerra come equilibrio

Nella nota conclusiva di Scipione e Annibale, la guerra per salvare Roma (Laterza, 411 pagg., 20 euro) Giovanni Brizzi affronta uno dei problemi centrali della storiografia. Lo fa con un artificio retorico sottile, pone una soluzione come riconosciuta e nello stesso tempo dichiara di aver agito in modo difforme da essa. Ammette di aver fatto «ciò che allo storico non è consentito, lasciando sovente liberi di agire intuito e fantasia».
Dichiara in questo modo che gli strumenti della ricerca sono sì l’erudizione, la conoscenza dei testi e delle fonti, la capacità di interpretarli correttamente e persino la valutazione accorta di quanto la storia ha cancellato. Quanto ci rimane del passato proviene, infatti, in larghissima parte dalla tradizione dei vincitori piuttosto che da quella dei vinti. Allo storico si chiede però qualche cosa di più: un talento proprio e unico. Egli deve saper fare una sintesi vitale di tutto quello che sa e fornirci un racconto che rispetti le fonti ma sappia anche parlare alla sensibilità di noi moderni. Che ci renda l’emozione dei fatti del passato.
E per far questo intuito e fantasia sono assolutamente necessari.
Ben venga quindi lo sforzo di Brizzi che, supportato da una conoscenza approfondita delle fonti, si sforza di dare un’anima ai due protagonisti indiscussi della più grande guerra che la Roma repubblicana abbia mai combattuto.
Innanzi tutto va riconosciuta all’autore la rara capacità di mantenersi imparziale fra Scipione e Annibale, di mettere in luce le qualità di entrambi, di rivolgere loro uno sguardo equanimemente affettuoso. Questo dà al testo un tono solare, anche nella tragedia degli eventi che racconta.
La Seconda guerra punica, con l’occupazione più che decennale del Sud Italia da parte di Annibale, fu infatti una catastrofe senza precedenti. Lo storico inglese Toynbee arriva a sostenere che nelle distruzioni occorse allora sta l’origine dell’arretratezza economica di quelle regioni.
Brizzi mantiene i suoi personaggi nell’ambito dell'agire politico. Rifiuta gli stereotipi della crudeltà per dare appieno il senso progettuale all’azione di Annibale. Allo stesso modo ricostruisce per Scipione la figura di un politico teso a realizzare un progetto alto, la pacificazione di tutto il bacino del Mediterraneo.
Certo il confronto rimane impari. Da una parte sta un genio indiscusso che conduce una lotta senza speranze contro una potenza emergente dalle potenzialità enormi, sconosciute persino a chi ne disponeva. Dall’altra il rampollo di un’aristocrazia militare proiettata verso la creazione di un impero che si propose come ecumenico. Un vinto e un vincitore. La superiorità militare del primo non poteva riequilibrare il vantaggio che la macchina bellica romana possedeva. Forse il merito di Scipione fu di riuscire ad accorciare i tempi della guerra. Senza dubbio ebbe il coraggio di sbarcare in Africa e di affrontare il nemico sul suo terreno, anche se così facendo bruciava ogni residua speranza di accordo fra le oligarchie cartaginesi e quelle romane, trasformava la tradizionale politica di integrazione dei vinti, sino ad allora propria della Repubblica, in un imperialismo aggressivo che si sarebbe manifestato con violenza sempre maggiore ai danni dei popoli confinanti. Primi fra tutti gli Stati ellenistici, ma poi anche i galli e i germani.
Il merito principale del lavoro di Brizzi sta però nella sua capacità di raccontare la storia su di una molteplicità di piani.
I protagonisti hanno desideri, progetti ed emozioni, ma lo sfondo è disegnato con la meticolosità di una tavola rinascimentale. In Scipione e Annibale possiamo seguire l’evoluzione interna alla classe senatoria romana nel corso del conflitto, il cambiamento di equilibri fra le sue componenti e, nello stesso tempo, siamo informati su quello che succedeva a Cartagine e in tutte le altre capitali del mondo che allora si affacciava al Mediterraneo. Infatti, anche se marginalmente, molti Stati orientali parteciparono al conflitto e ad essi si rivolse Annibale dopo la sconfitta di Zama, nella speranza di un riscatto ormai impossibile.
La Seconda guerra punica fu per Roma un evento tanto traumatico da modificarne in modo radicale l’attitudine nei confronti delle comunità vicine. Nei decenni ad essa successivi la Repubblica fu dominata dal terrore che qualcosa di simile potesse ripetersi. Nello stesso tempo il suo apparato militare aveva raggiunto una forza ed un’efficienza tali da consentirle di piegare senza problemi qualunque esercito messo in campo da un monarca ellenistico.
Tredici anni appena dopo Zama le legioni romane inflissero una sconfitta decisiva ad Antioco III, il più potente sovrano ellenistico, a Magnesia, nell’attuale Turchia. Scipione non partecipò alla battaglia perché malato, ma diresse la spedizione, anche se forse non ne condivise del tutto il progetto espansionistico. Proprio dalla gestione della pace fatta con Antioco III dopo Magnesia nacquero per Scipione le difficoltà giudiziarie che alla fine portarono al suo ritiro dalla vita politica.
Brizzi conclude la sua narrazione con la morte, quasi contemporanea, dei due rivali. Ci lascia intendere che con la loro scomparsa si chiude una stagione della storia e se ne apre una nuova, se possibile più violenta di quella precedente.

Annibale e Scipione avevano agito alla ricerca di un equilibrio delle potenze che si affacciavano sul Mediterraneo capace di rispettarne l’autonomia, dopo di loro la politica romana si indirizza invece verso un progetto imperiale, di conquista, e spesso di spoliazione. La distruzione terroristica di Cartagine ne fu il simbolo mentre la campagna di Gallia fatta da Cesare, poco più di un secolo dopo, ne rappresentò il culmine.

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