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Antipolitico elitario superuomo. Ecce Vate

Il grande disprezzo per il Parlamento in nome di uno Stato guidato dai migliori

Antipolitico elitario superuomo. Ecce Vate

Si è molto discusso sul d'Annunzio politico, con una predilezione spiccata a misurarsi sul dilemma se debba essere considerato il Giovan Battista del duce o un velleitario visionario di un'ultra-democrazia condannata a restare utopia. È sempre stata trascurato il ruolo da lui avuto nel promuovere l'antipolitica.

La sua, sia ben chiaro, è un'antipolitica del tutto originale che non si incasella a pieno in nessuna delle classificazioni elaborate dagli studiosi.

Non è una condanna pregiudiziale e irrevocabile della politica come rifiuto di ogni possibile suo esercizio. Non è nemmeno la riprovazione della politica solo per come viene esercitata (la «mala politica»), e quindi in vista del passaggio ad una «buona politica». Parimenti, non è la protesta promossa espressamente dalla società civile o viceversa dall'establishment. L'antipolitica del Vate non è nessuna di queste tipologie, ma al tempo stesso le riflette un po' tutte. Non poteva essere altrimenti trattandosi di un personaggio «inimitabile».

C'è in lui anzitutto la ripugnanza verso «i professionisti della politica» che da sempre serpeggia nell'opinione pubblica. Vi aggiunge solo una nota di maggiore sarcasmo e di sdegnato disprezzo.

Montecitorio è «una cloaca di vigliacchi e di incapaci». «La casta politica insudicia (l'Italia)». Il «regime parlamentare (è talmente) decrepito e putrefacente» che «non giova» nemmeno «incrudelire» su di esso. Si augura «che il Tevere si porti via tutte le infezioni della cloaca che ci ammorba», che gli italiani facciano piazza pulita di una classe politica capace solo «di amministrare la propria immondizia, pronta a tutte le turpitudini, pur che sia lasciata fingere di godersi il suo potere impotente».

D'Annunzio non ha bisogno di sperimentare la politica per disprezzarla. In lui l'antipolitica non discende da un giudizio di merito. È piuttosto il derivato di una visione della vita, tutta giocata su un'opzione estetico/vitalistica. La sua antipolitica ha, insomma, un carattere per così dire meta-politico. Si precostituisce alla politica e la sovra-determina. La politica merita di essere esercitata solo quando è in gioco la sorte di cause nobili, come può essere appunto la riparazione del torto subito con la vittoria mutilata che va inderogabilmente risarcito con il ricongiungimento della città Olocausta all'Italia, a costo anche della propria vita. Una «visione aristocratica» la sua, monopolio «degli eletti e dei pochi».

Fin dagli esordi nella sua produzione letteraria sono ben rintracciabili valori e idee che ben chiarificano quale sia il suo orizzonte politico. Già ne Le vergini delle rocce spicca un «impianto di ambizioni superomistiche». Claudio Cantelmo, la figura principale dell'opera, si fa interprete di un progetto a pieno titolo aristocratico, «nel senso che possiede la qualità dl dominatore, tenendo alla supremazia e all'affermazione di sé».

L'idea del superuomo, di evidente derivazione nietzschiana, comporta lo spregio del volgo: «Le plebi sentenzia nel 1892 - restano sempre schiave e condannate a soffrire tanto all'ombra delle torri feudali quanto all'ombra dei feudali fumaioli nelle officine moderne». La tesi della sovranità popolare è un artificio retorico che non regge alla prova della realtà. Lo Stato liberaldemocratico è una costruzione «ignobile». Lo Stato deve essere invece «un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata () destinata ad instaurare «un nuovo reame della forza» in cui «prima o poi, (sapranno) riprendere le redini per domar le moltitudini a (proprio) profitto () e ricondurre il gregge all'obbedienza! Le plebi restano sempre schiave».

Il rigetto della politica al tempo della democrazia liberale non comporta, però, il suo rigetto in assoluto. C'è solo una gerarchia da ristabilire. C'è da ridare al superuomo il ruolo che gli spetta. Non deve stupire se d'Annunzio non ha remore nel 1897 ad accettare addirittura una candidatura in parlamento. In quale considerazione tenga l'istituzione lo si capisce bene quando con assoluta disinvoltura, in spregio ai canoni della coerenza e del rispetto delle convinzioni correnti, passa dai banchi della Destra a quelli della Sinistra.

Dopo il fugace affaccio a Montecitorio non è comunque che d'Annunzio chiuda con la politica. In Italia, come in Europa, spira un'aria sempre più sfavorevole alla democrazia, al liberalismo, ai partiti. Un clima, questo, che ben si concilia con le idee professate dal Poeta. Nel 1910 d'Annunzio aderisce all'Associazione Nazionalista Italiana fondata da Corradini. Passano quattro anni e lo scoppio della guerra mondiale offre al Vate la grande occasione di tradurre finalmente sul piano operativo le sue idee e si immerge nell'azione. Anche allora il suo resta un «modo d'agire da letterato, da artista». A ben guardare, anche le sue successive sortite più eclatanti che compie nel corso del conflitto, come la beffa di Buccari o il volo su Vienna, non mirano ad un preciso obiettivo politico. Sono piuttosto dei gesti compiuti «in una veste lirica» in cui non manca anche una spiccata «dimensione ludica».

È con la spedizione di Fiume che il Poeta corona il

suo percorso politico. Anche in questa avventura continuano a prevalere in lui la ricerca del bel gesto eroico, quasi l'«abbandono erotico», il fascino dell'azione spesa «per inseguire il miraggio di una vita inimitabile».

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