Antunes racconta la vita dal bordo della morte

António Lobo Antunes, tra i maggiori scrittori europei contemporanei, ci ha abituati a una scrittura che seguisse il flusso di una voce, come fosse un canto che viene dal fondo di se stessi.

Antunes racconta la vita dal bordo della morte

António Lobo Antunes, portoghese di Lisbona, tra i maggiori scrittori europei contemporanei, ci ha abituati, con i suoi libri precedenti - e penso soprattutto a romanzi pure molto lontani nel tempo come In culo al mondo (1979) e Non è mezzanotte chi vuole (2012) -, a una scrittura che seguisse il flusso di una voce, come fosse un canto che viene dal fondo di se stessi e di cui si deve cogliere il ritmo, farsi trascinare dalla sua melodia. Nulla a che fare, però, con una scrittura istintiva o astratta. La sua lingua è ragionatissima, ma senza mai perdere di fluidità, addirittura millimetrica - perché solo un'attenzione minuziosa al proprio dettato permette di evitare quasi completamente il punto, se non alla fine di ogni capitolo, e di servirsi esclusivamente della virgola, come se fosse esclusivamente una pausa breve a permettere uno scarto del pensiero, una deviazione di senso, un intreccio della memoria.

Se possibile, in questo romanzo appena tradotto da Vittoria Martinetto, Sopra i fiumi che vanno (Feltrinelli), Lobo Antunes è ancora più radicale. La scrittura, che nel corso della narrazione esaspera le ripetizioni di semplici proposizioni o di interi periodi, diventa ipnotica, intrecciando i fili di una voce che si aggrappa al ricordo per ritrovare un volto, un nome - per non morire. Sì, per non morire, perché il narratore è in un letto d'ospedale e ogni capitolo scanziona un giorno di degenza. Quindici giornate che contengono in realtà un mondo intero, e questo per dire come il pensiero stesso del tempo, in Lobo Antunes, sia assolutamente dilatato, quasi ellittico - non una linea retta, ma un'ondulazione, una curva che unisce passato, presente e futuro. Capitoli che sono quindi tempi e spazi mentali in cui la malattia fa svegliare nel narratore lampi di ricordi: un padre che gioca a tennis e che viene colto dal figlio a tradire sua moglie; la casa di campagna dei nonni; una donna amata che lo ha abbandonato. Il tono di Lobo Antunes è quello di chi racconta tutto da un'alterità, come se fossero i suoi stessi ricordi a parlare o ad apparire, come si osservasse da fuori, come non fosse lui, steso e inerme, la persona che ricorda, ma i ricordi che lo ricordano; insomma, a rivelare a lui chi egli sia - «tutto ci cresce, non soltanto le unghie e gli anni, dovremmo cambiare nome a mano a mano che ci ampliamo, non da Antoninho a signor Antunes, ma da Filipe a Sérgio o da Fernando a Jaime, diventare estranei a noi stessi e abitare altrove». E capita poi, tra l'apparizione di un frammento di vita e un'immagine rivelatrice, che il narratore senta riappropriarsi del proprio corpo. Ed è il dolore, la malattia che avanza, che lo approssima a una fine che sente sempre più vicina, che fa sopraggiungere una fitta, che lo risveglia a se stesso. «Oppure altri passati ancora, la sua vita piena di passati e non sapeva quale fosse quello vero, memorie che si sovrapponevano, ricordi contraddittori, immagini che non riconosceva e non pensava gli appartenessero e in quel momento, senza preavviso, cominciò a sentire dei dolori alla spina dorsale e alla spalla, e lui divenuto spina dorsale e spalla, il resto non contava».

Ci si domanda spesso se la letteratura sia capace o meno di salvare la vita. Lobo Antunes sembra capovolgere la domanda.

Cosa esattamente si salva della vita? Non le immagini prodotte dalla nostra memoria, che verranno inghiottite insieme a noi, ma, appunto, una voce che quelle immagini è stata capace di resuscitare, renderle un corpo estraneo, farle vivere di vita propria.

Quella voce è per Antònio Lobo Antunes la stessa letteratura.

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