Apre Eataly ed è già pronta a mangiarsi la Grande Mela

New YorkTre anni e sei città dopo l’esordio accanto al Lingotto, Eataly ha aperto a New York, che si mette così in scia a Torino, Tokyo, Milano, Bologna, Asti e Pinerolo con l’insegna più grande al mondo esclusivamente dedicata alla gola. Dal piccolo con gusto all’immensamente grande perché Manhattan cammina sempre un passo avanti al resto del mondo. Ora si aggiunge questo paradiso dell’eccellenza agroalimentare verde bianca e rossa, che sintetizza secoli di tradizioni nostrane attualizzate dal movimento dello Slow Food. Sul palco a dare i tempi della conferenza il sindaco Bloomberg, nonché il cardinale Timothy Dolan a benedire un’impresa che il primo cittadino ha elogiato perché “dà lavoro fisso a oltre 300 persone». Poi un fiume di elogi alla nostra cucina: «So quanto si mangia bene a Milano, Roma e Torino, ma sono certo che presto New York sarà la città dove si mangia meglio italiano al mondo». Una splendida sfida. Esci in strada e sei sulla 23rd Street West ma, soprattutto, eri entrato da Madison Square lasciandoti il Flatiron sulla sinistra, quel grattacielo stretto stretto, ribattezzato ferro da stiro, che separa la Fifth Avenue dalla Broadway.
Con l’apertura al pubblico – l’assalto alle 4 pm locali di ieri, quando in Italia erano le 22 -, i Farinetti, Oscar e suo figlio Nicola, e i loro soci, Lidia e Joe Bastianich con Mario Batali, sono passati da una decina di giorni di simulazioni tra botteghe e ristoranti, 24 punti a livello strada più la birreria sul tetto, a guidare un luogo che propone il meglio del gusto italiano, dalla pasta Barilla al caffè Lavazza e alla birra Moretti, per citare tre simboli, a microproduzioni che riservano sorprese. Farinetti/Eataly rappresenta qualcosa di unico perché tutto ha un’anima italiana ma non tutto arriva dall’Italia. C’è il made-in-Italy originale che ha senso (e che puoi) trasferire negli Stati Uniti, Parmigiano e Parma, Grana e San Daniele, pasta, riso e formaggi, i vini e le birre, il cioccolato, per il resto si procede a una sorta di adozione e di trapianto di soffio vitale. Anche se la verità fa male a chi non vuole documentarsi, da questa parte dell’Atlantico hanno anche materie prime ottime come patate, pomodori e farine. Prima di stupirci, pensiamo a cosa arrivò in Europa dopo la scoperta dell’America e da dove arrivano le semole migliori lavorate nei nostri pastifici.
Il negozio (riduttivo) di New York, non ancora completo perché la microbirreria studiata da Teo Musso sul tetto è ancora in costruzione, è la somma di più botteghe, tanto che non esiste un pavimento unico ma cinque diversi. Tutto ruota attorno alla cosiddetta Piazza, lo snodo a tutto formaggi, salumi e crudo di mare, da cui si raggiungono ristoranti e scaffali. Ecco panetteria, pizzeria (Rossopomodoro) e spazio pasta; ecco poco distante la macelleria, carne La Granda allevata in Usa, con il teatro di Mario Batali alle sue spalle, chiamato «Manzo». Due passi ed ecco la scuola di cucina di Lidia Bastianich, qualcuno in più e si entra nel mondo della pasticceria, suddivisa per regioni (e Luca Montersino propone ad esempio il veneto «Tiratisù»), e del cioccolato.
L’investimento è di 25 milioni di euro (con previsioni di fatturato del primo anno tra un pessimistico 40 milioni e un ottimistico 80, con la convinzione di attestarsi a metà strada), poi discende ogni sapere come l’imperativo salutistico tanto che sono stati dimezzati i quantitativi di sale e di zucchero («Per stare bene bisogna mangiare italiano – ha detto Bloomberg -, lì ho visto pochi ciccioni»).

Con un concetto ben preciso come ricordato da Farinetti: “Aprii Torino e parlai di orgoglio. A Tokyo invece di semplicità, qui trionfa il dubbio. La nostra specialità è cambiare idea, non amo le certezze. A New York la parola che riecheggia di più è maybe, forse».

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