Trovarlo non è stato facile. Ma come Pollicino ho seguito le briciole nel bosco di Genova e alla fine l'ho rintracciato. Così ci siamo incontrati: appuntamento al Balilla in un'anomala pioggia d'aprile per parlare del suo libro. Volutamente non in commercio. Se la caccia all'editore, alla collana di prestigio, al reading e al presenzialismo sono una questione vitale per la maggior parte degli autori, lui non si è neanche posto il problema di calarsi o meno in questo girotondo.
Sì perché Piero Nicola, classe 1938, ha lavorato per oltre un anno al volume «Gli edifici privati Novecento nella Grande Genova» per poi stamparlo e spedirlo solo a «persone competenti e responsabili, che per la loro condizione sono indotte a una critica razionale e a una certa obiettività».
In sintesi: alla larga dagli indirizzi editoriali, dai discount del libro à la page e dall'arena distratta dei lettori senza volto.
Storia curiosa, in un oggi dove informazione e cultura non esistono senza show e circolazione, quella di Nicola e del suo libro. Che nel sottotitolo si fa manifesto: «Architettura dopo la decadente opulenza e prima del grigiore». Le parole hanno un peso e il trio decadente-opulenza-grigiore applicato all'edilizia è un macigno. Che poi trova sintesi nell'introduzione, ove poche righe danno il via a una carrellata di fotografie scattate da Nervi a Voltri alle costruzioni civili erette tra gli anni '20 e '40, «tra il Liberty e il non più stile del dopoguerra».
Non un saggio, quindi. Né un esercizio di stile fotografico perché l'intento del volume sorpassa l'estetica a favore del documento. O meglio della provocazione «che è stata facile: il libro è un confronto tra un'architettura apprezzabile con la sua abolizione, o con la rinuncia a fare architettura riducendola a un provvisorio bene di consumo».
Un palazzo tira l'altro nella geografia zonale di Nicola, una sorta di catalogo delle nostre case che vuole risvegliare le coscienze. Lui non è un architetto o uno storico: alle spalle un'esperienza da capitano di lungo corso e un lavoro nel consorzio del porto, grandi passioni e l'abitudine di passeggiare a testa in su. Tanto da sentire la città e riflettere sulla perdita del significato di concetti quali il bello, il buono e il dignitoso in una civiltà che nelle sue architetture svela lo smarrimento di molti orizzonti di senso.
Perché ogni muro è un segno e c'è differenza tra un palazzo rivestito in travertino con tanto di balconi e fregi e un solido di cemento costruito per contenere vite senza troppa fantasia. La pigrizia, specie in urbanistica e architettura, costa cara a breve, medio e lungo termine e se prima «il palazzo anonimo era un'eccezione oggi è quello bello a esserlo»: il mondo va al contrario dalle lettere al cinema per Nicola, che si sente un estraneo da quando al giro di boa degli anni '60 vede sgretolarsi l'impegno, il senso di sacrificio e decoro della società civile.
Così nasce la sua protesta silenziosa mentre, per quanto riguarda gli edifici pubblici, si trova ad affrettare il passo vicino al «pesante» palazzo della Borsa e a guardare con nostalgia l'ormai deturpata piazza Dante. Vicino il centro direzionale di Madre di Dio è una visione insopportabile mentre si tira un sospiro di sollievo in piazza della Vittoria tra le Caravelle e il liceo D'Oria.
Anche il mercato del Pesce consola Nicola, ma guai a chiamare in causa il Razionalismo perché il termine è usato spesso per scelta politica al fine di gettare nell'oblio quello stile Novecento che invece lui ha evidenziato in corsivo sulla copertina del libro. Dove in rassegna non ci sono edifici pubblici ma civili: quelle case che scandiscono la vita dei cittadini della Grande Genova dai suoi estremi costieri fino alle viscere del centro. Il nome della via è sufficiente a identificarli: non ci sono date né nomi di architetti o progettisti e magari qualcuno è stato costruito anche dopo la guerra ma è inserito perché figlio della stessa società. Fatta di persone che anche «nelle piccole e modeste costruzioni tenne al buon gusto, al fregio, al degno ornamento sacrificando denaro e comodità». L'uomo contemporaneo per Nicola non sa produrre nulla di duraturo, lavorare sulle proprie eredità o costruirne di nuove.
Io, sarà colpa dei miei trent'anni, ascolto e rifletto. La città e il problema della casa mi sono sempre stati a cuore e certi errori sono innegabili. Ma Genova è città policentrica e «divisa» per natura e l'antropizzazione ha sempre dovuto fare i conti con la sua fisionomia tra sovrapposizioni e frammenti.
Di persone responsabili i palazzi, belli o brutti che siano, sono pieni.
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