Arcimboldo e Carracci, le radici del naturalismo di Caravaggio

La "Canestra di frutta" non ha meno dignità del ragazzo che la tiene fra le braccia. Per l'artista l'uomo non è superiore al resto del mondo

Arcimboldo e Carracci, le radici del naturalismo di Caravaggio

Il grande critico d'arte, mio remoto maestro, Roberto Longhi, che più di tutti ha avuto occhi, nutriva una certa antipatia per Leonardo, ritenendolo un meraviglioso pensatore e un modesto pittore. Ma Leonardo non fu il solo, nel Pantheon degli sgraditi del grande critico di Alba. Oltre a Leonardo, perché troppo intellettuale, e poco legato al vero, figura Arcimboldo. Cosa apparentemente paradossale, perché Arcimboldo sembra legatissimo al vero: quanto lui dipinge è tratto dalla natura, o comunque da libri naturalistici, con una capacità di rappresentare in maniera lenticolare, nel disegno, quanto era stato raccolto e studiato, da naturalisti e scienziati come Ulisse Aldrovandi.

E tuttavia, mentre Arcimboldo mostra tanta evidenza di cedri, di carciofi, di fiori, crea altro. La sua non è una pittura della realtà, bensì una fantasia. Riversa elementi naturalistici nello schema della pittura di figura, dando vita al «capriccio», cioè al montaggio di pere, mele, pomodori, radici in figure umane. Qui risiede l'«intellettualismo» di Arcimboldo contestato da Longhi, ma anche la sua meraviglia, la sua portata rivoluzionaria, apprezzata nelle corti europee, in special modo alla corte di Rodolfo II.

Arcimboldo (1526-1593), è un genio italiano capace di sedurre il potere con la forza di queste ideazioni ironiche e di straordinaria qualità pittorica, che diventeranno riferimenti diretti del Surrealismo, di Salvador Dalí, di Magritte, tutti ammaliati dalla follia di Arcimboldo.

Longhi sbagliava. Non solo non ha compreso la dimensione di questo grande artista, dimensione assoluta e europea, ma soprattutto non ha intuito il rapporto di Arcimboldo con Caravaggio. Nel 1587, quando Arcimboldo rientra a Milano, carico di gloria, Caravaggio ha quindici, sedici anni, e ha casa e studio poco distante dalla casa di Arcimboldo. È altamente improbabile che non si sia introdotto a curiosare nella sua bottega, per ammirare queste composizioni di frutta così fantasiose e rivoluzionarie. Sono sicuro che abbia guardato questo pittore, secondo Longhi così diverso da lui, e invece così simile nella concezione della realtà naturale.

Negli stessi anni, a Bologna, si muove Annibale Carracci, ritrattista ma anche pittore «di genere», capace di raccontare macellerie, pescatori, fruttivendole, aprendo in modo più diretto a Caravaggio. Il suo Mangiafagioli anticipa i personaggi di Vincent van Gogh, o addirittura una scena novecentesca, ambientata in un'osteria. Nel Mangiafagioli e nel suo cappellaccio non c'è alcuna simbologia, non rappresentano altro che ciò che vediamo. Siamo nel 1584-1585 e dunque a Bologna, prima che a Milano, con Carracci prima che con Caravaggio, comincia quello che si chiama Naturalismo, la Pittura della realtà.

Da questo mondo lombardo (Arcimboldo), bolognese (Carracci, e anche il mirabile Bartolomeo Passerotti) - cui sarebbe certamente da aggiungere la realtà cremonese (Vincenzo Campi), bresciana (Moroni), veneziana (Tintoretto), ferrarese (Dosso) - da questo sfondo padano, nell'accezione che Longhi e Francesco Arcangeli davano a questo termine, deflagra Caravaggio. Il pittore milanese memorizza tutto, trattiene queste esperienze e a Roma, dove arriva nel 1596, con tutto questo bagaglio di conoscenze, dipinge il Ragazzo con canestro di frutta. Di cosa si tratta? Di un ragazzo di strada, che potrebbe essere oggetto di un mercato amoroso, e che offre se stesso, offrendo un cesto di frutta. Il marchese Vincenzo Giustiniani, uno dei più importanti committenti del Merisi, nel Discorso sopra la Pittura, probabilmente databile tra il 1617 e il 1618, indirizzato all'amico avvocato olandese Theodor van Amayden, lascia testimonianza di una probabile indicazione dello stesso Caravaggio: «tanta manifattura gl'era à fare un quadro buono di fiori, come di figure».

Identico è l'impegno nel dipingere la natura e la figura. Entrambi sono reali, sia la figura sia la frutta, e l'una non è meno importante dell'altra. Così il ragazzo non è meglio dipinto del cesto e dei suoi elementi. Caravaggio in un solo quadro stabilisce un principio di parità, di equipollenza tra tutto ciò che è reale, scardinando il principio classico che distingue i generi in pittura e li classifica in un ordine tassonomico.

Il David di Michelangelo del 1501 e l'Uomo vitruviano di Leonardo indicavano il primato della figura umana, ribadendo l'antico principio secondo cui «l'uomo è misura di tutte le cose», nulla è più importante delle gesta e della storia dell'uomo. E dipingere Dio voleva dire, appunto, dipingere il Dio fattosi uomo, in Cristo. Poi vi erano i generi minori, dove non è propriamente dominante l'uomo: la natura morta, il paesaggio, le battaglie, le vedute, le pastorali. Caravaggio, nutrito di Arcimboldo, Carracci, Jacopo Bassano, Moretto da Brescia, li oltrepassa, rivoluzionando la pittura e la storia e con questo dipinto afferma che tanta cura richiede la figura umana, quanta cura richiede un cesto di frutta.

Poco dopo, tra il 1597 e il 1600, Caravaggio farà un salto ulteriore: passerà da questa immagine, in cui c'è l'equivalenza fra la figura umana e la frutta, al suo celeberrimo Cesto di frutta, la prima natura morta, assoluta, del mondo. La prima caratteristica di questa invenzione è l'eliminazione del contesto, sostituito da un meraviglioso muro ocra, da cui si staglia la natura morta. La seconda peculiarità è il piano di appoggio, un tavolo che dice la precarietà di tutte le cose, e, attraverso di esse, della vita umana: da esso il cesto con la frutta sporge, sembra sul punto di cadere.

E, infine, la frutta. Il primo quadro di natura morta pura, sciolta da un contesto (come invece non accadeva in Passerotti, o Carracci), senza figura umana (come invece la frutta appariva nella meravigliosa Fruttivendola di Campi) non mostra una natura rigogliosa, piena, ma malata, oltre la pienezza della maturazione, che lascia presagire la sua putrescenza, l'oltraggio del tempo. Il cesto di frutta di Caravaggio è già il «Giardino sofferente» dello Zibaldone di Leopardi, in cui si esprime pienamente la morte nella vita, la morte della vita: la mela è bacata, l'uva è impolverata, la foglia è arricciata.

È il manifesto di un mondo nuovo, il mondo in cui i cieli e il mito, Dio e gli eroi sono precipitati in quel ragazzo di strada.

E poi anche lui è stato eliso, ed è rimasto un cesto di frutta, precario nella posizione, in bilico tra la vita e ciò che vita non sarà più, i cui elementi sono aggrediti dal tempo. Dal cielo alla terra, dal giardino dell'eden al giardino malato.

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