Gli ardori nucleari di Prodi spenti dai diktat dei Verdi

Solo nel ’96 la «conversione», ma per esigenze elettorali

Giuseppe Salvaggiulo

da Milano

Quando si parla di energia nucleare, Romano Prodi perde la memoria. Confonde le date, dimentica di essere stato presidente dell'Iri per sette anni consecutivi, si attribuisce convinzioni opposte a quelle manifestate in pubblico. La sera del 17 ottobre, durante la trasmissione Porta a porta, Bruno Vespa gli ha chiesto: «Quando ci fu il referendum sul nucleare, lei era presidente dell'Iri?». Domanda semplice e risposta ancor più semplice: sì o no. Ma il leader dell'Unione ha bofonchiato: «Sì... no... era prima del referendum». Prima? Prodi è stato presidente dell'Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) una prima volta dal novembre 1982 all'ottobre 1989. Quindi lo era all'epoca dell'incidente alla centrale di Chernobil (26 aprile 1986). Ma anche al momento dei referendum italiani anti nucleare (8 novembre 1987). Avrebbe lasciato l'incarico solo due anni dopo.
Può capitare di far confusione sulle date. L'importante è non confondere le idee. Quando Vespa gli ha chiesto «Fu una sciocchezza quel referendum?», Prodi ha risposto: «Io combattei per il nucleare, poi venne Chernobil e quello fu un ammonimento molto forte». Già il 30 marzo scorso, nella trasmissione Radio anch'io, aveva raccontato di aver sostenuto il nucleare fino al disastro di Chernobil e di essersi opposto dopo, traumatizzato dagli effetti di quell'incidente: «Non rinuncio mai alla mia storia, a suo tempo mi pronunciai a favore del nucleare, poi ci fu la tragedia di Chernobil e fu sospesa per lungo tempo, giustamente, ogni attività». Tutto ciò per motivare la sua posizione odierna: «Niente nucleare finché non ci saranno novità su sicurezza e trattamento dei rifiuti».
Ma è davvero questo il suo tragitto intellettuale sul nucleare: favorevole fino a Chernobil, contrario dopo?
Per ricostruire il Prodi-pensiero sull'argomento, bisogna tornare al 1986, pochi mesi dopo lo scoppio del reattore di Chernobil. A giugno il Parlamento convoca la prima Conferenza nazionale sull'energia, inibendo nel frattempo al governo qualsiasi iniziativa in materia di impianti nucleari. E chiama a raccolta scienziati italiani e stranieri, amministrazioni locali, enti pubblici, strutture sanitarie, associazioni di imprenditori e sindacati, organizzazioni sociali e culturali, autorità europee. Il ministro dell'Industria Valerio Zanone convoca un comitato promotore, che raccoglie 88 documenti di altrettanti organismi diversi e li consegna a tre commissioni presiedute da Paolo Baffi, Umberto Veronesi e Leopoldo Elia. Un governatore della Banca d'Italia, uno scienziato di fama mondiale, un presidente della Corte costituzionale. Per dire il livello dell'iniziativa.
Il 24 febbraio 1987 si apre la Conferenza al Palazzo dei congressi dell'Eur di Roma. Nei successivi quattro giorni, molti convenuti sosterranno le ragioni del ricorso al nucleare, alcuni le contesteranno con gli argomenti usati oggi da Prodi. Ma nel 1987, a usarli sono i docenti universitari Gianni Mattioli e Massimo Scalia (entrambi esponenti dei Verdi). Prodi no. Partecipa al dibattito più importante con il commissario Cee Nic Mosar, il direttore centrale della ricerca economica della Banca d'Italia Rainer Masera, i presidenti dell'Eni Franco Reviglio, dell'Enel Franco Viezzoli, dell'Enea Umberto Colombo e della Confindustria Luigi Lucchini. Di fronte a un pubblico consesso così autorevole, Prodi pronuncia un intervento che colpisce l'uditorio per la convinzione con cui aderisce alla tesi pro nucleare.
Il presidente dell'Iri denuncia che la controversia sul nucleare si basa sulla volontà di nascondere la verità che i Paesi industrializzati non possono permettersi di rinunciarvi, se non con un impatto disastroso sui prezzi petroliferi e con gravissimi squilibri geopolitici a catena. Per rendere l'idea delle drammatiche conseguenze sull'economia mondiale di una rinuncia al nucleare, Prodi arriva addirittura a paragonarle al disastro di Chernobil (lo stesso che - dice ora - lo convinse della necessità di rinunciare al nucleare).
L'affondo di Prodi prosegue: «La grande colpita da un eventuale blocco della costruzione di centrali nucleari non è l'industria del settore, ma tutta l'industria italiana, che continuerà a scontare un maggior costo dell'energia rispetto ai Paesi concorrenti. (...) Non ha quindi senso ritenere che la spinta favorevole al ricorso al nucleare possa provenire da una lobby industriale interessata».
Infine la sicurezza. La preoccupazione che oggi, secondo Prodi leader dell'Unione, impedisce di tornare al nucleare. Davanti alla platea della Conferenza, Prodi presidente dell'Iri la liquidò così: «Ogni fonte ha i suoi problemi, sia in condizioni di esercizio normale sia in caso di incidente. La soluzione qui non sta certo nello stimolare l'una o l'altra paura, ma nel mobilitare le aspirazioni a una migliore qualità della vita per incrementare le nostre capacità di utilizzare al meglio le diverse risorse disponibili».
E lo choc per il disastro di Chernobil? E il turbamento per la sicurezza degli impianti? E l'angoscia per lo stoccaggio delle scorie? Nulla di tutto ciò in quel solenne intervento del 1987.

Prodi se ne ricorderà quasi dieci anni dopo, quando gli ambientalisti gli imporranno il no al nucleare nel programma dell'Ulivo. Da allora, il Prodi nuclearista dei tempi dell'Iri è solo un parente scomodo con cui non è il caso di farsi vedere.

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