Un villaggio in fiamme, donne piangenti, uomini in fuga, disperati. Rabbini che coprono gli occhi di fronte all’orrore. E una barca di fuggiaschi imploranti aiuto. Il quadro è del 1938, dipinto all’indomani della Notte dei cristalli, e rappresenta la messa in scena degli orrori novecenteschi, quelli già vissuti e quelli di là da venire.
Ha la potenza di una profezia la «Crocifissione bianca» di Marc Chagall, opera che per la prima volta è in Italia - in prestito dall’Art Institute of Chicago – e sarà esposta a Roma fino al 27 gennaio (Giorno della memoria) al Nuovo museo del corso.
Marc Chagall era un ebreo russo (poi francese) cresciuto nell’amata Vitebsk - oggi Bielorussia - in una comunità chassidica che gli aveva lasciato l’impronta di una forte religiosità. Una gioiosa cultura ebraica ispira le sue opere, in cui aleggiano figure sospese sulla terra, in una dimensione onirica ed errante, spesso con un fagotto sulle spalle o un violino. «Provate a fuggire portando sulle spalle un pianoforte!» recita un aneddoto di sapore yiddish.
In quest’opera, 86 anni fa, Chagall ha dipinto la violenza nazista, e pare profetizzare la Shoah, e non solo: un uomo con gli stivali neri incendia una sinagoga. Si alza un fumo nero. Brucia anche la Torah, o forse viene messa in salvo. Per terra un lampadario e una sedia rovesciata, simboli di un ordine perduto. Ma non c’è solo il cupo presagio dello sterminio nazista. Chagall ritrae una scena dolente e caotica che va anche oltre. Cristo pare al centro di un pogrom. È in croce, campeggia in mezzo al caos ma - pur crocifisso - sembra indenne da tutto. Una scala è appoggiata alla croce, e la croce prende la forma di un fascio di luce. Al centro di una rappresentazione spettrale e dolorosa il Nazareno è morto ma pare addormentato e anzi emana un bagliore di quiete e speranza. Sembra poter dar rifugio all’umanità, anche a quella zattera che procede con un solo remo. Sarà per questo che Bergoglio lo considera il suo quadro prediletto.
Il capolavoro di Chagall ribalta lo stereotipo antisemita per antonomasia: il «deicidio», oggi aggiornato nella versione «antisionista» e onusiana del «genocidio». Il Gesù Cristo di Chagall è in tutto e per tutto ebreo. Ha un drappo a cingergli la testa, e anche il tallet, il tipico manto di preghiera con cui viene raffigurato. «Per me – ha detto l’artista – Cristo ha rappresentato il vero tipo del martire ebreo». E Gesù era ebreo, circonciso, nato da Maria che - si legge anche nel catechismo della Chiesa cattolica, che cita Luca - era «una figlia d’Israele, una giovane ebrea di Nazareth in Galilea», «una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe».
È un ebreo quello che viene messo in croce. È un ebreo che predica il comandamento dell’amore per il prossimo, per gli umili, per gli oppressi. La separazione del cristianesimo dall’ebraismo si avrà con Paolo e con la Patristica. Ma alle origini, nelle prime comunità, non era percepita o avvertita.
Chagall dipinge un Gesù che rimane ebreo fino alla morte. E nel Nazareno riassume le persecuzioni subite dal suo popolo. Tutte. Anche quelle future. Anche l’attacco di Hamas, un nuovo pogrom.
Pogrom è parola che deriva dal russo «devastazione», e certo sotto gli zar, feroci pogrom devastarono gli «shtetl», i villaggi ebraici dell’Est Europa, e iniziarono ben prima dell’invasione nazista. Nella vasta «zona di insediamento» che corrisponde alle attuali Bielorussia, Ucraina, Polonia, Russia, terre ad altissima densità di ebrei e di yiddish, saccheggi e massacri divamparono già a cavallo fra 19° e il 20° secolo – il primo pogrom di cui si ha notizia è datato 1821, a Odessa - e i massacri ripetuti indussero già allora a consistenti migrazioni verso la terra d’Israele.
Scoppiate già sotto l’Impero russo, le persecuzioni proseguirono dopo la Rivoluzione d’Ottobre, tanto che lo stesso Chagall - inviso al regime per il suo tratto poetico e spiritualista - dovette fuggire. Nella minacciosa avanzata a spada sguainata di uomini che impugnano bandiere rosse, si intuiscono quindi le persecuzioni sovietiche. E si immaginano i pogrom del terrorismo politico e jhiadista.
Nella “Crocifissione”, però, la figura di Cristo si staglia come un porto sicuro per tutti, non solo per gli ebrei. Per tutti i perseguitati e gli oppressi, per chiunque porti una croce. Monsignor Rino Fisichella, che ha voluto l’esposizione in vista del Giubileo, ha parlato di «significati universali», e di una rappresentazione di Gesù «non solo come figura centrale della fede cristiana, ma anche come simbolo di sofferenza e speranza del popolo ebraico». Parole non di poco conto, in un momento delicato come questo, che sembra pregiudicare i progressi dei decenni passati fra i monoteismi.
Gesù di Nazaret è un «figlio del vostro popolo» aveva riconosciuto Giovanni Paolo II nella sua storica visita nel 1986 al tempio maggiore di Roma, che in questi giorni compie 120 anni, e negli ultimi 40 è stato visitato da tre pontefici. Quella visita di Wojtyla era la prima. E ricuciva secoli di persecuzioni contro gli ebrei in cui l’antigiudaismo cattolico ha avuto grande parte. Quel giorno il papa polacco chiamò «Fratelli maggiori» gli ebrei di Roma, una comunità antica 2mila anni. E il rabbino capo che lo accolse nella sinagoga di Lungotevere de’ Cenci, era Elio Toaff, che avrebbe intitolato le sue celebri memorie «Perfidi ebrei fratelli maggiori», in una ambivalenza che riecheggiava l’orazione del venerdì santo, quella liturgia - mal tradotta, mal interpretata – che pesava come un macigno e fu infine cancellata nel 1959, quando la Santa sede si preparava al Concilio Vaticano II e a grandi passi si avviava al dialogo con gli ebrei.
Oggi sono tempi di guerre, di antisionisismo dilagante e di regressione
del dialogo ebraico cristiano. L’attuale rabbino capo, Riccardo Di Segni ha parlato «grossi passi indietro nel dialogo». Eppure un’opera d’arte unisce. Come uniscono la sofferenza e un messaggio di speranza e salvezza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.