Astore, lo strano bambino che brilla se non lo guardi

Walter Siti in "I figli sono finiti" racconta una Brera dove si rischia di diventare invisibili e senza sentimenti

Astore, lo strano bambino che brilla se non lo guardi

Un bambino di due anni gattona sul pavimento di piastrelle rosa e gialle; è biondo, indossa un pagliaccetto di lana. Uno strano fenomeno fisico lo caratterizza: talvolta intorno alla sua minuscola figura compare una luminescenza come quella che nei video segnala i contaminati ma la luminescenza si spegne quando sono presenti gli adulti. Come ora, per esempio, che si sono dimenticati di lui e vociano sopra la sua testa parlando di un attentato e di molti morti a Madrid. Il bambino raggiunge il piano di un panchetto e si drizza in piedi guardandosi attorno severo: poi afferra la maniglia della porta, ci arriva agevolmente perché ormai di anni ne ha quattro. Nella stanza accanto papà e mamma discutono su qualcosa che ha a che fare con le armi, sono calmi però il bambino incamera le parole «indios» e «Amazzonia». Va a scriverle sul quaderno verde (con quante zeta amazonia? e hindios avrà l'acca?): in copertina un'etichetta bianca incorniciata di rosso proclama il suo nome.

Il nome è il peso più grosso che ha dovuto sopportare in quei primi anni di vita un nome che io come scriba sono stato tentato di cambiargli (troppo improbabile e difficile da ricordare), ma nulla posso contro lo stato delle cose. Il secondo protagonista di questo romanzo si chiama Astóre (comincia per A come Augusto). Nome toscano perché l'origine del padre è pisana, era il nome del bisnonno; Astore o Astorre è ancora diffuso in campagna. L'astore è un rapace molto simile al falco, un po' più tozzo, marrone sul dorso e biancastro sul petto, solitario e dallo strido martellante; dunque il nome proprio di persona significa «audace e pronto come un falco», o forse deriva da una stirpe di falconieri. Uccello da caccia, descritto minuziosamente da Brunetto Latini nel suo Trésor; per questo Dante chiama «astóri celestiali» i due angeli che scendono a uccidere il serpente nella valletta dei principi in Purgatorio. La madre ha resistito parecchio al nome ereditario (malignamente sottolineava «dinastico»), non ha ceduto nemmeno quando il marito ha azzardato una somiglianza con Alastor della saga di Harry Potter: Alastor Malocchio Moody, il simpatico e guercio capo dell'Ordine della Fenice che Albus Silente nomina invano come professore di Difesa contro le Arti Oscure. Astor Piazzolla ha reso ancor più netto il rifiuto («lo storpiatore del tango, per favore no»), poi a un certo punto le obiezioni sono cadute di colpo («perché mi intigno su una cosa così scema? Ma chiàmatelo come ti pare»). Il marito, cioè il papà di Astore, innamorato e sempre incline a interpretare le scelte della moglie nel senso a lei più favorevole, ha sospettato che a deciderla per il sì siano stati gli Astor newyorchesi: essendo architetta, era rimasta affascinata nell'apprendere che l'albergo capolavoro déco su Park Avenue, il Waldorf Astoria, deve il proprio nome alla potente casata degli Astor (provenienti dal paesino di Walldorf in Germania, vicino a Francoforte); gli stessi della Astor Library e della Astor Avenue nel Bronx, dove tenevano la scuderia dei cavalli. Alastor, vedi caso, si chiamava il cavallo di Filippo II di Macedonia, padre di Alessandro Magno, chiudendo il cerchio. Dunque Astore è stato autorizzato da Astoria, fatale ambiguità. Il bambino che abbiamo visto gattonare non è responsabile di questo groviglio; per ora (ma soltanto per ora) indossa il proprio nome con totale innocenza. Il destino, che lo osserva invidioso da in cima alle scale, sa invece che l'influsso più diretto è stato di un ultimo Alastor, il genio o demone dei litigi familiari secondo la mitologia antico-romana («credimi snob quanto vuoi, basta che il mio ruolo di incubatrice finisca presto l'importante è che sia bello quanto te, o no?» questo il sibilo notturno che ha siglato l'accordo e che Astore per fortuna, frastornato dal liquido amniotico, non ha potuto sentire).

Piero Guidotti, il padre di Astore, è in effetti un uomo molto attraente secondo i canoni tradizionali: alto, sempre abbronzato, occhi chiari, spalle quadrate («patior» tatuato sul deltoide destro) e vita stretta ma questo, come vedremo, è per la moglie Gloria un elemento di disgusto più che di attrazione. Sono strane le strade del desiderio. La biondezza Astore l'ha presa da lui, come l'attitudine all'esibizionismo: col padre (ma Piero dice «babbo») si diverte a fare le belle statuine, cioè le pose dei muscoli poi si rotolano e ridono. Oppure fingono di perdersi e trovarsi, Piero lo chiama «mirtillo pallina der bosco», si fa trovare sempre un po' svestito e si strofina la pancia di Astore sul naso. Dalla madre ha preso forse l'intelligenza precoce e la precisione maniacale; un giorno d'autunno (aveva cinque anni) si è messo a piangere perché gli operai del Comune avevano ramazzato e gettato nel cassone del camion le foglie secche prima che lui avesse finito di contarle. A quattro anni sapeva già a memoria le tabelline fino al dodici, e quanto a parlare è stato una specie di mostro, a dieci mesi già diceva distintamente «mamma», «papà», «At-tore» e «cacca».

Ben presto ha abbandonato il babillage infantile e la sua dizione è diventata quella di un minuscolo inquietante adulto («un nano»); il tono con cui snocciolava giri di frase complessi appariva alquanto saccente, nonna Ersilia tra orgoglio ed esorcismi diceva: «Gesù tra i dottori».

Estratto da I figli sono finiti (Rizzoli, pagg. 280, euro 20)

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