Il dialetto seconda pelle in un mondo senz'anima

Il dialetto seconda pelle in un mondo senz'anima
00:00 00:00

Taaac, tel chi el dì del dialèt. Essendoci una giornata mondiale per qualsiasi cosa, dal Pi greco (14 marzo) al gin tonic (19 ottobre), oggi tocca festeggiare quella dedicata ai dialetti. Che per qualcuno sono lingue straccione senza l’«X factor», idiomi incomprensibili e plebei che possono trovare cittadinanza solo alle briscolate di paese. Ecco, questi snob vanno tenuti a distanza con un fermo e severo «sta sü de doss». Perché i dialetti in realtà sono l’ultimo, prezioso anello che ancora ci lega a un valore diventato ormai tabù: quello dell’eterogeneità delle radici. Tutte legittime, tutte da difendere.

In un mondo sempre più globalizzato, in cui ogni centro storico ha gli stessi negozi internazionali e in cui si insegna (giustamente) l’inglese fin dalla scuola materna, niente quanto un «barlafüs» sentito gridare da qualcuno a Londra o a New York ti fa esplodere il cuore di umana vicinanza con quello sconosciuto, evidentemente cresciuto a cassœula e Martesana come te. L’italiano all’estero lo guardi con sospetto misto a fastidio e disagio, ma il compaesano lo guardi con affetto da compagni di squadra e fratellanza da commilitoni. Perché il dialetto, in un’epoca di guerra ideologica in cui sembra vietato rivendicare orgogliosamente da dove si proviene per paura di offendere indios, berberi ed eschimesi, è una divisa comune che fa da seconda pelle. Ed è l’arma più efficace da opporre a questa follia universalista.

Niente parla di identità quanto il dialetto, perché niente quanto la lingua crea una comunità, come insegnano i baschi e il loro euskera, una sorta di fossile linguistico sopravvissuto ai millenni e alle dittature. Nemmeno il codice fiscale è così indicativo: dei tanti «F205» nati a Milano, se facessimo un test tipo «l’inganno della cadrega» di Aldo, Giovanni e Giacomo, scopriremmo che sono più quelli che preferiscono l’edizione di Topolino in calabrese a quella nel dialetto della Madunina, del prestinée e del và a ciapà i ràt. Il dialetto, più della carta d’identità e molto più dell’Isee, fa selezione e ci dice da dove veniamo davve ro.

Gli ultimi studi di linguistica ne hanno identificati 31 in Italia, più o meno diffusamente parlati (che gioia essere accolti al pronto soccorso di Trieste da un primario che si esprime solo a xe e mona), ma la sensazione è che il calcolo sia una semplificazione di un universo molto più variegato. Chi scrive non è linguista – ofelée fa el tò mestée -, ma è atavicamente panlombardo, ed essendo nato a Milano (al Curvètt, quel che adès el par de vès in Africa), cresciuto in un paesino della bassa Cremonese e lecchese di adozione, sa riconoscere lo «straniero» che viene dall’altra parte del Naviglio solo per la parola che usa nel definire un rastrello. O per la lunghezza di una vocale nell’immortale massima «quand la merda la munta ‘n scàgn, u che la spœusa u che la fa dàn». Questo per dire che il dialetto è proteiforme e cangiante, e nelle sue sfumature più espressive, nelle sue vivide metafore legate alla vita di tutti i giorni, è l’apoteosi di un concetto sociopolitico controcorrente, quello del patriottismo minimo. Dove il concetto di patria è ridotto alla monade del campanile, della città, del paese, della frazione, del quartiere. Nazionalisti sarete voi: se non sapete che frutto è la «mugnaga» non abbiamo niente da spartire.

Si scherza, ma fino a un certo punto.

Finché non recupereremo la ricchezza di questa «bio-diversità» linguistica e sociale – vantiamo quella delle graminacee e dei broccoli, potremo farlo pure per gli esseri umani, no? – saremo destinati a finire diluiti, omogeneizzati in modalità espressive avvilite da anglismi e sigle, tutti infestati da inflessioni romanesche

da Saxa Rubra, tutti condannati a rimanere attoniti davanti al fatalismo di un «maniman» genovese o all’essenzialità di un «piciu» piemontese. Triste è la vita di chi non è fiero delle parole germogliate dalla sua terra.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica