Tutti conoscono il grande Giacomo Leopardi, il poeta dell'infinito, per le sue meravigliose poesie, per la sua vastissima produzione letteraria, per il suo pensiero filosofico nichilista che hanno influenzato intere generazioni di studiosi.
Molto meno noto è invece il rapporto del poeta con il mondo della cucina e della gastronomia, che rappresentavano per lui un vero e proprio universo parallelo rispetto a quello della sua attività di letterato e scrittore.
Un'inclinazione che si manifestò fin dalla più tenera età.
A soli 11 anni il giovanissimo Leopardi, come molti suoi coetanei anche ai giorni nostri, non amava la minestra, anzi proprio la detestava.
Non si limitò però a rifiutarla o a fare capricci come avrebbero fatto pressoché tutti i bambini comuni.
Il piccolo Giacomo esprimette tutto il suo astio verso un cibo che considerava alla stregua di una punizione dedicandogli addirittura una poesia, dal titolo "A morte la Minestra ", nella quale la povera brodaglia vien definita un cibo "negletto e vile".
E ancora "Ora sei tu, Minestra, dei versi miei l'oggetto e dirti abominevole mi porta gran diletto. O cibo, invan gradito del genere umano".
Crescendo, Leopardi maturò sia nei suoi scritti sia nel suo rapporto verso il cibo, con il quale stabilì un rapporto profondo.
La gastronomia e la buona tavola non erano per lui solo un bisogno fisiologico o un semplice piacere ma un elemento di intima connessione con le gioie terrene, un vivido contrasto con la sua visione spesso malinconica dell'esistenza.
Nativo di Recanati, Leopardi crebbe in un ambiente dove la ricchissima è variegatissima cucina marchigiana si esprimeva in piatti che erano vere poesie per il palato, come le olive ascolane, il brodetto, i vincisgrassi.
Questi cibi non solo nutrivano il corpo ma ispiravano la mente, offrendo un rifugio sensoriale dalle sue riflessioni filosofico e un conforto per la sua salute cagionevole.
Nelle sue Operette Morali possiamo leggere come il cibo per Leopardi fosse un mezzo per indagare la condizione umana. Il cibo diventa quindi simbolo di comunità e condivisione, un piacere per quanto effimero in grado di offrire una breve tregua dalla sofferenza esistenziale.
Leopardi poi ravvedeva nella cucina un'arte in grado di suscitare emozioni, proprio come la poesia.
La preparazione di una ricetta era per lui un atto creativo, un'opera d'arte che una volta consumato lasciava un segno duraturo nell'anima, proprio come I versi di una poesia.
La cucina era per lui una forma di espressione, un linguaggio che andava oltre le parole, capace di comunicare amore, nostalgia, gioia e dolore.
Negli ultimi anni della sua vita, durante il soggiorno napoletano, Leopardi trovò conforto e svago nell'ottima cucina partenopea.
Di suo pugno stilò una lista di ben 49 piatti prediletti, indirizzata al cuoco Pasquale Ignarra, che si occupava di preparare i pasti per il poeta a casa Ranieri, dove dimorava.
Il prezioso documento, conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, ci racconta di come Leopardi amasse il riso al burro, le frittelle di borragine, i budini di ricotta e il gelato al miele.
Una predilezione per sapori ricchi e confortanti, a volte in contrasto con le raccomandazioni mediche spesso ignorate dal poeta.
Un Leopardi goloso e buongustaio, lontano dall'immagine malinconica e pessimista che spesso si ha di lui.
Era un sostenitore incrollabile della buona tavola, che considerava, a ragione, gioia rara e preziosa dell'esistenza umana.
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