Fluttua tra i corridoi ricolmi di generi alimentari, senza mai comprare nulla. Mentre i suoi coetanei se la spassano al Campus, lei predilige il reparto freschi dei giganteschi supermercati di Cincinnati. O anche l'isoletta della frutta e verdura: l’importante è seguire quelle donne come un segugio instancabile. Jenny Saville non è vittima di un singolare feticismo. Semplicemente è affascinata da quelle forme. Dalle carni spesso debordanti della middle class femminile statunitense, quella che affolla i Walmart fasciando la pelle morbida in striminziti shorts, premendola a forza dentro minuscole canottierine candide. Quello sfilare di corpi è esattamente quel che sta cercando. Annota ogni movenza mentalmente, quindi torna all’Università inumidendo i pennelli.
Jenny Saville, le origini: da Cambridge A Glasgow
Nella sua casa di Cambridge si respira aria buona. Mamma e papà sono educatori: non hanno mai derubricato la cultura al grado di inutile orpello. Jenny assorbe per osmosi e compie spesso incursioni nello studio dei suoi, per sfogliare i grandi libri colorati che punteggiano le scrivanie. Portano incise immagini potenti: la piccola Saville sgrana le pupille, annota e mette via. È una prima, rudimentale, educazione artistica.
Quella vera inizia quando compie diciott’anni – vale a dire nel 1988 – quando i suoi la spediscono a qualche miglio di distanza. Il posto è la Glasgow School of Art. Qui le intuizioni ancora acerbe della ragazzina cominciano a essere sorrette da un’impalcatura pratica e teorica. La Saville pare inizialmente insofferente, ma poi si persuade ad ascoltare: i suoi pensieri svelti le suggeriscono di comprimere temporaneamente quella ribalderia che le monta da dentro, per apprendere più che è possibile. In Scozia però patisce anche una prima lacerante delusione: c’è una sola insegnante donna in tutto il corpo docenti e la sua pittura pare alquanto canonica. Jenny non lascia prevalere lo sconforto e fa spallucce: vorrà dire che se ne andrà altrove.
L'America: tutta un'altra vita
Fosforo e talento: Saville ha un’altra andatura rispetto alla combriccola che la circonda. Vince una borsa di studio semestrale per gli Stati Uniti. Se ne vola a Cincinnati, Ohio. Qui trascorre le sue giornate principalmente in due posti: le biblioteche e i supermercati, appunto. Dalle prime, molto più fornite sul tema rispetto alla composta Madrepatria, estrae una quantità disumana di testi femministi. Li legge tutti, avidamente, costruendo il suo personalissimo convincimento. Nei secondi passa alla pratica: in una società consumista che propone donne oggetto in sequenza, lei non ci ritrova nemmeno un po’. Altro che gambe levigate e corpi sodi. Saville cerca l’antitesi del paradigma imposto: le interessa l’imperfezione racchiusa nella flaccidità. Va matta per un paio di fianchi troppo abbondanti. La sua protesta è appena cominciata: quei corpi li trasferisce tutti su tela.
Saatchi, un'indispensabile sliding door
Il pensiero lucido di Jenny è accompagnato da una forma pittorica classica, ma esplicita e trascinante. Dal primo schizzo in poi, Saville trascende i limiti imposti tra figurativo e astratto, addentrandosi in un umanesimo contemporaneo. Al centro ci sono sempre quei corpi, quei volti. I tratti sono marcati, densi di colore. L'intento è raccontare tutto quello che c’è dietro. Il modo in cui le donne, condizionate da una cultura largamente partorita da menti maschili, percepiscono il proprio corpo. Il decadimento delle carni, che esprime la finitezza umana e costringe a convivere con l’idea della morte. La pelle che parla ricorda le suggestioni di José de Ribera e Tiziano. Gli spunti di Rembrandt e Willem de Kooning. Non è roba che può sfuggire facilmente dalla retina allenata di un critico.
La nota il gallerista Charles Saatchi. Un giorno fortunato si inchioda proprio davanti a una delle prime esposizioni di Jenny. Ne resta estasiato. Lascia un biglietto su un quadro: “Chiamami”. È una sliding door impensabile. Saatchi ne fa rapidamente la sua protetta. Acquista tutti i dipinti già venduti del suo periodo a Glasgow. Poi la sfida, filantropo illuminato, a riempire la sua galleria.
Un successo dirompente: l'artista più quotata al mondo
Sono, quelle in parola, le premesse di una carriera luminosa. Saatchi finanzia completamente il suo lavoro dal 1992 al 1994 e la avvia verso i contesti più prestigiosi sulla scena mondiale. Ovunque i suoi tratti, raccontando impudentemente le vulnerabilità della carne e dello spirito, generano contesa. Come nel 1997, quando prende parte alla mostra collettiva Sensation, additata da una pletora di benpensanti come kermesse da boicottare e vandalizzare.
Qualche anno prima era tornata in America. Si era trasferita per un certo periodo di tempo a New York, frequentando lo studio di un noto chirurgo plastico: lì aveva scattato foto a ripetizione. Le interessava, ancora una volta, comprendere l’aspetto psicologico che spinge a manipolare il corpo umano. Un percorso probabilmente controverso, ma certo autentico, che le consente di scalare l’Olimpo dei pittori più quotati al mondo. Il suo record è scandito da Sotheby’s: 12 milioni di euro.
Jenni Saville oggi: un'evoluzione costante
Oggi Saville vive nella sua casa londinese e insegna arti figurative alla Slade School of Art. Una prospettiva che le consente di contaminare la sua pittura con le suggestioni che provengono dalle nuove leve. Di recente una sua esposizione è giunta al museo del Novecento di Firenze: tra le opere esposte spiccava Rosetta, una mendicante cieca conosciuta da Jenny molto tempo fa, declinazione ulteriore del suo afflato empatico.
E poi, certo, c’erano loro: quei corpi debordanti, quegli sguardi che ti infilzano per raccontarti la loro versione dei fatti. Sintomo che la Jenny cinquantenne è tutt’altro che appagata dal successo. I dogmi, del resto, non vanno in vacanza. La voglia di incrinarli ancora meno. Per fortuna ci sono supermercati aperti a ogni ora.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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