
Ho attraversato l'Aspromonte, dallo Jonio al Tirreno. Su queste montagne di truce leggenda negli ultimi tre anni sono stati portati a termine 167 sequestri. E altri quattro sono ancora in atto. Angela Casella, madre di un ostaggio (Cesare, 20 anni, di Pavia) venne a Locri e si incatenò in piazza per ricordare agli italiani che i rapimenti non erano mai cessati, anche se i giornali, per sfinimento, non ne parlavano più.
La signora ebbe la solidarietà della gente, ne scosse la coscienza. E l'apparato giudiziario fu costretto a svegliarsi. Qualcosa accadde: le forze dell'ordine liberarono l'ingegner Belardinelli. Fu inaugurata la cosiddetta linea dura, da cui ci si aspettavano molti frutti. Sull'Aspromonte furono inviati carabinieri e poliziotti a migliaia per ripulire la regione. La tv li mostrava ogni giorno in azione, fra querce e faggi, in fratte e valloni. «È la volta buona», pensarono i cittadini. Sbagliavano.
Trascorsi alcuni mesi dalle solenni dichiarazioni di guerra alle cosche, sequestrati e sequestratori sono stati di nuovo dimenticati. Tutto come prima. Dove sono i battaglioni che dovevano rivoltare ogni zolla nel regno della 'ndrangheta? Non li ho veduti. Ho percorso 92 chilometri, fra efeste e picchi, sulla statale 112, che man mano che sale degenera in mulattiera, e ho incontrato solamente tre ragazzi e una ragazza con l'uniforme della P.S.; infreddoliti e disorientati, facevano la guardia a un paracarro.
La grande operazione, che doveva ristabilire l'ordine e la legalità in questo angolo di Calabria, si è risolta nell'ennesima burla: una sbrigativa parata militare ad uso televisivo. L'Aspromonte conserva i propri segreti, protegge i delinquenti e nasconde i loro malaffari. E sarà così chissà per quanto ancora.
Il mio viaggio comincia a Reggio, sulla «Costa dei gelsomini». Magna Grecia. Un mare da dépliant, blu scintillante, sembra vernice. E conviene ammirare l'acqua: come l'occhio approda, si spalanca inorridito su un altro mare, che è opaco: una distesa di mattoni tagliata dalla ferrovia. In ogni comune si è costruito a casaccio su terreni demaniali: case non rifinite o addirittura senza tetto, pensioni e pizzerie, stabilimenti balneari e ville a schiera della peggior tradizione, il tutto in una mescolanza di stili senza stile. Gli edifici sono così vicini alla riva che hanno muri corrosi dalla mareggiata. I proprietari se ne sono infischiati dei regolamenti, e gli amministratori di farli rispettare.
A Bovalino, lungo il corso, sono posteggiate una quarantina di camionette della polizia, sui parafanghi bivaccano agenti in tenuta da campo. Domando: «Perché state qui, invece che andare sui monti a cercare i sequestrati?». «Ci andiamo quando lo comandano i superiori, non gli automobilisti milanesi». (La mia macchina è targata MI).
Nelle vicinanze c'è l'«Hotel Oasi». Entro per mangiare ma sono respinto da un poliziotto seduto alla «reception» e coi piedi sul banco: «Polizia strilla , questo è il nostro quartier generale. Il ristorante è avanti a destra». Alla periferia di Bovalino, l'indicazione per Platì, che dell'Aspromonte è la sentinella armata: 2500 abitanti, 400 pregiudicati, 150 diffidati, 80 sorvegliati speciali: ci arrivo in 20 minuti. A metà strada, che è allo stesso livello della fiumana in secca, sono abbagliato da due lastre di marmo che rifrangono il sole: lapidi mortuarie con incisi questi nomi: Domenico Carreffa e Giuseppe Scambellone. In paese, alla prima donna che scorgo, chiedo informazioni: «Di che sono morti, scontro d'auto o scontro a fuoco?». Mi squadra con diffidenza: «Che importanza ha? Il Signore se li prese, sia fatta la sua volontà». «O della mafia?». «Ma che andate cercando...».
Platì assomiglia a San Luca, più che un centro urbano è un deposito di detriti. Galline che razzolano sul sagrato, gatti scheletrici davanti agli usci, gente dal volto scabro, vecchie nere come insetti che recano sul cercine pesanti panieri. Una desolazione polverosa come dopo un bombardamento. Non appena fuori dall'abitato, un cartello Anas avverte che la statale è intransitabile. Mi dicono che è interrotta dal 1951, quando l'alluvione provocò frane e smottamenti, e da allora vari operai sono impegnati in un lavoro che non si conclude. Ciononostante i banditi, e non soltanto loro, vanno su e giù. Quindi vado anch'io.
Tre o quattro tornanti, e l'asfalto non c'è già più. Avanzo facendo la gimcana fra crateri profondi venti o trenta centimetri. La marcia più alta che posso ingranare è la seconda, un balugino sul cruscotto segnala che il radiatore soffre la pendenza. Ma ormai mi sono inerpicato per oltre venti chilometri, tanto vale proseguire, anche perché la carreggiata è stretta e non consente l'inversione di marcia né esistono slarghi, semmai abbondano le gole dove la strada è inghiottita dai castagni e dalle querce, tunnel di foglie trafitti qua e là da lame di sole.
Sono le tre del pomeriggio, il valico è a 30 chilometri e ho la sensazione che sia irraggiungibile: dovunque mi volti è bosco fitto, monti a sinistra, strapiombi a destra, rocce e speroni da tutte le parti. È da un'ora che mi arrampico su questa erta ossessiva e non ho ancora attraversato, né veduto in lontananza, un villaggio; non sono passato davanti a un casolare, una cantoniera, un pollaio; non ho incontrato anima.
Sballottato nella macchina che geme sulla ghiaia, proseguo per altri sette o otto chilometri nell'immutabile macchia, quando mi imbatto in un essere vivente: una mucca dal mantello fulvo, che mi fissa con fare interrogativo, ponendosi di traverso sulla rotabile. La cosa non mi turberebbe granché se si svolgesse in un luogo diverso dall'Aspromonte, che non è idoneo, con quattro prigioni di rapiti e, probabilmente, un centinaio di banditi nei dintorni, per approfondire conoscenze bovine.
Suono il clacson, ripetutamente, ma l'animale non se ne dà per inteso. Anzi, protende il muso verso il parabrezza, niente affatto intimorito dalle mie proteste che sfociano presto, a onor del vero, in invettive e minacce. Cedo perfino alla tentazione di lanciare un sasso alla bestia, la quale, vagamente irritata, emette un poderoso muggito ma non si sposta, come se la pietra, colpendola sul fianco con un rumore di tamburo guasto, le avesse fatto solletico. Il verso tuttavia è di richiamo per altre vacche, una dozzina, che sbucano dalle siepi e circondano la vettura. Vinto, mi siedo sul lato a valle del viottolo per riflettere sulla delicata congiuntura. Pensieri cupi che mi ronzano in testa e non riesco a scacciare, mentre una strana inquietudine mi rende impaziente di fare qualcosa, ma non so che cosa.
Sulle vette che mi assediano si addensa una nuvolaglia viola che anticipa le tenebre, e in un silenzio sornione si odono le voci misteriose della foresta: uno zufolo che raggela, un gracchiare lontano cui risponde un grido pungente di uccello, tonfi, fruscii, sospiri. E sul fondo del burrone, un torrente che si ingorga in una foiba con scrosci sinistri. C'è di tutto, anche la solitudine, per morire di paura. Tanto più che se c'è la mandria, ci sarà in giro anche un pastore, e dato che in questa località poco ridente la figura del pastore coincide con quella del sequestratore, che potrei raccontargli qualora si materializzasse e mi chiedesse conto della mia presenza nel sito? Che sono un verde in cerca di emozioni in tinta?
In preda al panico, avvio l'auto deciso a compiere una strage di mucche, le quali, intuito che non scherzo e sentendo il motore al massimo, infastidite si immergono nella selva.
Ancora chilometri di ascensione su una pista sempre più accidentata. Boscaglia a 360 gradi: l'estensione dell'Aspromonte è di 1648 chilometri quadrati, tutti così, abbandonati come mille anni fa. Dei 3500 uomini inviati dal ministero a rastrellare malviventi, nemmeno l'ombra. Solo al passo della Rondinella, quattro agenti dall'aria smarrita che mi consigliano gentilmente di deviare per Oppido. Non gli do retta, quello è lo Zillastro: qui è avvenuta la maggior parte dei versamenti del riscatto, un pianoro in una cortina di abeti. E quello è il Cristo Zervò, che è servito a qualcuno per esercitarsi al tiro al bersaglio: la statua è stata sbrecciata al cuore da una gragnuola di pallettoni.
Eppure, anche su questi monti che non finiscono mai, le istituzioni hanno lasciato un segno: un sanatorio vuoto che si sbriciola.
Fu costruito dalla sanità fascista e praticamente mai usato, perché il clima umido non guarisce i polmoni, li avvizzisce. Soldi sprecati, ieri come oggi. Ieri in monumenti inutili, oggi in perlustrazioni fantasma. I governi passano, i banditi restano. Non sempre se ne vanno i migliori.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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