Il silenzio delle malattie mentali è assordante, un grido muto di sofferenza celata, di esistenze trascorse nell'ombra.
A differenza delle malattie fisiche, quelle mentali non portano segni tangibili, nessuna febbre o ferita evidente, rendendo difficile comprenderle e accettarle. Sono, forse, malattie legate al cervello? O forse all'anima? E se sì, cosa è davvero l'anima? O forse alla psiche? Ma dov'è? E perché? Ci aggrappiamo alla convinzione che se non possiamo vedere le malattie mentali, forse queste non sono così reali.
Avevo circa tredici anni e, durante un ricovero per un intervento nel reparto di neurochirurgia infantile, a causa di ristrutturazioni interne all'ospedale, la psichiatria infantile venne temporaneamente spostata accanto al mio reparto. È stato lì che ho conosciuto tanti ragazzi affetti da malattie mentali silenziose. Ragazzi che, nonostante la loro giovane età, portavano sulle spalle un fardello pesantissimo. Ho visto la sofferenza nei loro occhi, ho toccato con mano il loro dolore e, in alcuni casi, la loro tragica fine.
Le statistiche parlano chiaro: il 70% di questi ragazzi riesce a superare i loro problemi, ma c'è un 30% che non ce la fa. Ho visto la mia migliore amica soccombere a quel dolore silenzioso. Ho visto il buio negli occhi di ragazzi che avrebbero dovuto avere tutto il futuro davanti a sé. Ho toccato con mano la sofferenza, ho toccato con mano la morte, i pianti tutto. Per molto tempo, non ho avuto il coraggio di affrontare quei ricordi. Ma poi, durante una presentazione a Roma lo scorso anno, ho incontrato Chiara (nome fittizio per proteggere la sua privacy), una ragazza di 19 anni, bellissima e apparentemente serena.
A fine presentazione, Chiara si avvicinò per chiedermi un autografo. Mi ha raccontato dei suoi sogni, delle sue paure, dell'amore e della vita tutti argomenti tipici degli adolescenti.
Dal primo momento in cui l'ho vista, ho pensato di voler essere come lei: bella, dolce e gentile. La ragazza perfetta, la ragazza che sarei voluta diventare. Solo dopo ho appreso che Chiara fosse in terapia. Parlando con sua madre, ho scoperto che Chiara ha sorriso con me dopo mesi in cui non lo faceva a causa delle sue battaglie interiori con ansie e disturbi mentali. Non provava più emozioni, come se fosse stata in una bolla. Per quanto ricevesse amore, non riusciva a percepirlo. Le mancava un pezzetto per completare il puzzle. Forse il più importante. Si chiama «imparare ad amare se stessi» e, senza quello, il quadro è incompleto, l'amore non è totale.
Sia chiaro, non significa essere egoisti, anzi, significa amarsi per poter amare il prossimo. In quel momento ho capito che tanti soffrono in silenzio, proprio come i ragazzi che ho conosciuto in ospedale, proprio come Chiara. E così ho deciso di riprendere in mano quelle storie, di scrivere per loro e per tutti coloro che lottano contro i propri demoni invisibili. Una volta, un ragazzo mi ha confessato che non chiede aiuto perché è cresciuto in un ambiente dove un uomo può farlo solo se gravemente ed evidentemente in pericolo, altrimenti viene visto come debole.
Questa sua rivelazione mi ha colpito profondamente, ricordandomi di una ragazza che mi ha detto di avere paura di chiedere aiuto perché la fa sentire vulnerabile; solo durante un attacco di panico, quando il cuore batte all'impazzata e ha paura di fallire, riesce a farlo. Il silenzio diventa una cura, una protezione contro il giudizio altrui, che percepisce come un'arma letale. Questa è la riconferma di una triste realtà: quando un adolescente rimane in silenzio, sta urlando.
Un'altra ragazza, che combatte contro l'autolesionismo, mi ha confessato che non vuole essere aiutata perché teme che - accettando l'aiuto - guarirà e lei non è pronta a lasciare andare il dolore che è diventato, ormai, una parte di lei. Nel suo racconto, il dolore non era solo una fonte di sofferenza, ma anche un confidente, un compagno che non giudica, che fa sentire vivo. In un mondo che spesso non ascolta, il dolore diventa l'unico compagno che resta, l'unica voce che sembra comprendere. Non abbiamo forse un ruolo anche noi? Perché giriamo il capo di fronte al dolore, quando potremmo fare la differenza?
Abbiamo il dovere di rimuovere delicatamente quella coperta calda del dolore per rivelare qualcosa di molto più bello: la gioia di vivere. Io inizio da qui, perchè sono certa che le rivoluzioni più belle inizino su carta. Ho raccolto tutto il coraggio, ho riaperto delle ferite che credevo cicatrizzate e ho deciso di scrivere di Milena, la protagonista del mio romanzo Sono ancora qui (Mondadori Electa).
Milena è una di queste ragazze. Sempre sorridente, sempre pronta a dare una mano, sempre con tutto sotto controllo. Ma dietro il suo sorriso impeccabile e il suo aspetto ordinato, si nasconde un mondo di sofferenza silenziosa che pochi possono immaginare. La sua paura di sbagliare, il bisogno incessante di avere tutto sotto controllo, la spingono a trovare conforto nel cibo, sfociando in comportamenti alimentari disfunzionali.
La sua è una battaglia quotidiana contro un nemico invisibile, che la lascia esausta e vulnerabile. Milena, come tanti altri, è spesso giudicata superficialmente. Si può pensare che voglia dimagrire per aderire a standard estetici promossi dai social media, senza comprendere che l'anoressia è la manifestazione di un problema molto più profondo e complesso. È un modo per esercitare controllo in una vita che sembra altrimenti fuori controllo.
Milena potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere la tua amica, tua sorella, tua figlia. Guardiamo oltre le apparenze, ascoltiamo con il cuore e parliamo con gli occhi.
Solo così possiamo sperare di curare, non solo i corpi, ma anche le anime ferite di chi soffre nell'ombra. Perché, ricordate, affogare a mezzo metro d'acqua o due, porta con sé sempre la stessa tragica conseguenza. Coraggiosi non si nasce, ci si diventa.*Autrice di «Sono ancora qui» (Mondadori Electa).
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