La Vespa e quel ragazzone: 25 anni fa moriva Giovannino Agnelli

Venticinque anni fa moriva a soli 33 anni, stroncato da un raro cancro all'intestino, l'erede designato della famiglia più potente d'Italia, Giovanni Alberto Agnelli. Per chi è cresciuto all'ombra della Piaggio, Giovannino era uno di famiglia

Giovanni Alberto Agnelli alla presentazione della Vespa ET4
Giovanni Alberto Agnelli alla presentazione della Vespa ET4

Poche cose sono capaci di farti pesare il passare del tempo come vedere quella che ricordavi come una bambina diventata una giovane donna. Quella che sabato scorso era sul palco nel paese di Montopoli Valdarno (Pisa) con la madre, nella mia memoria rimarrà sempre la bellissima bambina che, tanti anni fa, ebbe a malapena l’occasione di conoscere suo padre prima che una crudele malattia se lo portasse via troppo presto. Ha un nome particolare che funziona sia in italiano che in inglese, Virginia Asia e un cognome che pesa una tonnellata: Agnelli. La cerimonia, organizzata dal comune nel quale si trova Varramista, la splendida tenuta della famiglia Piaggio che ha fatto da testimone all’epopea della famiglia della Vespa, è avvenuta qualche giorno in anticipo per celebrare un evento veramente funesto per questo territorio: la morte di Giovanni Alberto Agnelli, primogenito di Umberto ed erede designato della famiglia più potente d’Italia.

Il ragazzone venuto da lontano

Se per molti questa è una delle tante ricorrenze che passano senza lasciare traccia anno dopo anno, per chi, come il sottoscritto, è nato e cresciuto all’ombra del “fabbricone” che ha fatto le fortune di questo angolo di Toscana, è una data da marcare in nero sul calendario. Non era un imprenditore come tanti, una presenza aliena venuta qui per fare soldi e poco altro. Giovannino era uno di noi, una persona speciale che sembrava rendere possibili anche i sogni più arditi. In lui avevamo riposto tutte le speranze per il futuro, per la rinascita di una città che sembrava entrata in una crisi irreversibile.

Quando se ne andò all’improvviso, pochi mesi dopo aver annunciato di soffrire di una rara forma di cancro all’intestino, fu come se la luce si fosse spenta per sempre. Senza il suo sorriso, il suo entusiasmo, il suo coraggio, il futuro che ci eravamo tutti immaginati come meraviglioso tornò di colpo impossibile. La “fabbricona” è sempre lì, le Vespe continuano ad uscire e a portare ovunque nel mondo il nome di Pontedera ma l’eccitazione di quei tempi è solo un ricordo. Virginia Asia è sempre lì, col suo sorriso timido, a ricordarci che non se n’è andato del tutto, ma non è la stessa cosa. Quel ragazzone venuto da lontano era davvero speciale. A farci male, più che altro, è il pensiero di quel che avrebbe potuto fare per la Piaggio, per la Fiat e per l’Italia. Se ne parla poco di Giovannino, della sua filosofia, del suo ottimismo contagioso, ed è un vero peccato. Dal suo breve passaggio terreno potremmo tutti imparare molto, specialmente in un momento come quello che stiamo vivendo.

Giovanni Alberto e Umberto Agnelli
Giovanni Alberto col padre Umberto Agnelli

Uno di famiglia

All’incontro di sabato non sono voluto andare, non solo per evitare i discorsi di circostanza dei politici, primo tra tutti il governatore della Toscana Eugenio Giani, che con Giovannino ebbe spesso a che fare negli anni ‘90, occupandosi in quegli anni di mobilità e delle relazioni con le aziende del settore. Anche se non ebbi mai occasione di conoscerlo di persona, avevo sempre sentito parlare di lui. Per chi lavorava nella “fabbricona”, il figlio di Antonella, erede della dinastia Piaggio, non era certo una presenza inconsueta. Probabilmente ci eravamo incrociati da piccoli, quando i figli dei dipendenti andavano a ritirare il piccolo regalo per la Befana. Lui c’era spesso, tra l’amata nonna e il potentissimo direttore dello stabilimento, l’Ingegner Lanzara. Col passare del tempo rimase sempre più dall’altra parte dell’Atlantico, ad Atlanta, dove la madre, separatasi da Umberto Agnelli, aveva un allevamento di cani. A Varramista tornava a fare le vacanze estive, quando non studiava alla high school o, più tardi, alla prestigiosa Brown University. Mia madre lo conobbe meglio quando, per qualche tempo, fu l’assistente di Donna Paola e non faceva che parlare di quanto fosse gentile, alla mano e disponibile. Di lui parlavano bene altri nostri amici, che nella splendida tenuta lavoravano a tempo pieno ma a dire il vero era difficile trovare qualcuno che avesse qualcosa da ridire sul delfino di casa Agnelli. Per i coetanei non era affatto un privilegiato, non aveva affatto la puzza sotto il naso. Chi Varramista la frequentava spesso ricorda ancora quando andassero a pescare insieme, quando inforcava un motorino per fare una gita in gruppo come usava al tempo o quando veniva precettato per interminabili partite di calcetto. Anche ora, 40 anni dopo, lo piangono come se fosse un parente stretto. Considerato quanto diffusa sia l’invidia sociale dalle nostre parti, non è cosa da poco.

Giovannino Rossi, operaio

Nel 1982 iniziò a tornare sempre più spesso in Italia, per periodi più lunghi. Si mormorava che zio Gianni fosse rimasto impressionato dal nipote e che l’avesse scelto come suo erede. Per imparare meglio come funzionavano le ditte di famiglia, passava le estati a lavorare in fabbrica, senza che nessuno sapesse chi fosse. Il soprannome che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita se lo guadagnò alla Comau di Grugliasco, dove fu registrato come “Giovannino Rossi”. In una delle eccellenze mondiali dell’automazione avrebbe anche imparato ad amare la robotica, cosa che gli sarebbe stata utile più avanti. L’estate successiva la passò a Barcellona, presso gli stabilimenti della partecipata della Piaggio in Spagna, la Motovespa, per poi passare qualche tempo proprio a Pontedera, a poche centinaia di metri da casa mia.

Mio padre era uno dei responsabili del magazzino e girava spesso nello stabilimento a controllare quali pezzi mancassero. Notò quel ragazzone alto, dal sorriso simpatico e come, per qualche strana ragione, l’ingegner Lanzara passasse così tanto tempo vicino alla sua stazione. Ci mise del tempo per capire che quel giovane che non mancava mai di salutarlo quando passava non era altro che l’erede di una delle famiglie più ricche al mondo. L’estate finì e Giovannino Rossi se ne tornò a Providence, Rhode Island, a studiare relazioni internazionali in una delle università più esclusive al mondo. Parecchi “piaggisti” se lo ricorderanno sempre quando scherzava e rideva con loro. Anche chi votava da sempre per il Pci non ce la faceva proprio a considerarlo come il "nemico".

Il carabiniere Giovanni

Una volta laureato, tornò in Italia stabilmente, espletando il servizio militare vicino alla “sua” Varramista, quel posto dove aveva passato tante estati felici. Come da tradizione di casa Agnelli, provarono a fargli fare il corso da ufficiale di complemento ma all’epoca il titolo universitario americano non era riconosciuto dallo stato italiano. Giovannino non si fece troppi problemi: il 21 aprile 1986 entrò a far parte del battaglione “Tuscania” dell’Arma dei Carabinieri, all’epoca parte della divisione “Folgore”, come soldato semplice. La cosa, ovviamente, non passò inosservata, tanto che la Benemerita lo scelse per la campagna pubblicitaria di quell’anno, con il sorriso del “carabiniere Giovanni” in mimetica sui cartelloni per l’arruolamento. Il capitano Michele Tunzi, comandante della II compagnia, ricorda come, anni dopo il congedo, ricevette una chiamata poco prima delle sue nozze per ricordargli una sfida a tennis che avevano in sospeso.

Com’era il “carabiniere Giovanni”? “Non voleva avere attenzioni particolari. Svolgeva regolarmente l'attività del battaglione. Ha fatto dodici lanci, poteva limitarsi a sei, ma gli piaceva. Mi risulta che in famiglia, pur non osteggiando la sua decisione di entrare nei para', avevano manifestato qualche perplessità". Non volle trattamenti speciali nemmeno quando fu impegnato in Calabria e in Sicilia alla caccia di prigioni dei rapiti, di covi dei latitanti, di arsenali della criminalità organizzata. Il colonnello Tunzi ricorda il Capodanno 1987, quando Gheddafi lanciò dei missili contro Lampedusa. “Partimmo il 27 dicembre, la notte di San Silvestro giocammo a Risiko".

A Pontedera, invece, ce lo ricordiamo per un’altra ragione. Ogni tanto, come successe a me un giorno mentre tornavo da scuola col motorino, venivi superato da una Lancia Delta Integrale. Stava tornando a Varramista, in licenza, guidando una delle 500 vetture stradali costruite per farla partecipare al mondiale di rally, “precettata” proprio per lui. Essere il delfino della famiglia più potente d’Italia aveva anche lati positivi.

Giovanni Alberto e Gianni Agnelli
Giovanni Alberto con lo zio Gianni Agnelli

A scuola d'impresa

Una volta congedato, a Pontedera lo si vedeva sempre più spesso. La cosa non sorprese nessuno: sebbene zio Gianni l’avesse individuato come suo erede, la Piaggio era “cosa sua”, la palestra nella quale imparare la difficile arte di fare impresa e mettere in pratica quelle riforme che aveva in mente per il gruppo Fiat. Ci volle qualche anno prima che prendesse formalmente il controllo della ditta ma negli uffici lo si vedeva con regolarità, stavolta senza bisogno di usare nomi falsi. Mia madre, che da sempre si occupava dei mercati esteri, ebbe occasione di lavorare a suo stretto contatto per diverso tempo. L’impressione che lasciò in una ditta che faticava molto a lasciarsi dietro le stratificazioni del passato fu incredibile. In un posto dove serviva spesso farsi parecchia anticamera prima di poter accedere alla presenza di certi dirigenti, la gente trasaliva quando se lo vedeva apparire lì, alla loro scrivania. Non poteva essere più lontano dall’immagine del dirigente d’antan: se aveva bisogno di qualcosa si alzava e veniva a chiedertela.

Non gli piaceva molto delegare, voleva capire come funzionavano le cose, imparare i dettagli anche minimi, convinto che niente fosse veramente insignificante. Certo, non era un dipendente come tutti: per ragioni di sicurezza cambiava spesso percorso e ogni giorno prendeva una macchina diversa dall’ampio parco macchine aziendale. Niente di particolarmente strano o esotico, non si faceva troppi problemi, gli bastava arrivare da A a B. Magari arrivava con l’aereo privato, sulla pista sulla quale durante la guerra si provavano i bombardieri Piaggio, prima che la Vespa uscisse dalla penna dell’ingegner D’Ascanio ma non aveva tutte le risposte in tasca. Se molti impiegati di vecchia data non gradivano molto il suo approccio “gregario”, avrebbero avuto occasione di ricredersi. Quel ragazzone venuto da lontano pensava in grande e non vedeva l’ora di iniziare a cambiare le cose.

Giovanni Alberto Agnelli sulla Vespa ET4
Giovanni Alberto Agnelli sulla nuova Vespa ET4

Dalla Sfera alla nuova Vespa

Nei libri di storia si legge che Giovanni Alberto Agnelli fu nominato presidente della Piaggio il 25 febbraio 1993, per poi prendere posto nel CdA della Fiat il 15 novembre ma, in realtà, aveva già iniziato da tempo a far pesare la sua visione del mondo. Mia madre mi racconta come, alla fine degli anni ‘80, ebbe occasione di vedere un modello costruito dalla licenziataria taiwanese della Piaggio, uno scooter molto diverso dalla Vespa, in plastica. Gli ingegneri pontederesi consideravano questi prodotti dozzinali, una specie d’insulto nei confronti della tradizione della ditta, nata e cresciuta con la scocca portante di derivazione aeronautica. Giovannino non la pensava così: il mercato stava andando in quella direzione, rimanere attaccati alle glorie del passato avrebbe portato la ditta al fallimento. Fu grazie al suo impulso che la Piaggio compì una rivoluzione copernicana, presentando la Sfera, primo scooter di plastica con telaio a tubi, con variatore invece del cambio a quattro marce.

La rinascita dello storico marchio iniziò proprio da quel modello e dalle altre riforme che seguirono. Poco alla volta, quasi tutto cambiò in azienda, dal marketing al merchandising, dalla scelta dei colori al recupero della tradizione, fino al ritorno del product placement, tecnica molto americana che avrebbe fatto la fortuna della nuova Vespa, la sua eredità più importante. Il suo impatto nel management fu ancora più importante: grazie a lui arrivarono molti giovani promettenti, formati all’estero in grandi multinazionali, una ventata d’internazionalità che riuscì a salvare la Piaggio da sé stessa. Poco alla volta, quella ditta che sembrava destinata a sparire, riuscì a cambiare rotta e reinventarsi. Immaginate se avesse avuto tempo di applicare le sue ricette alla Fiat...

Il nuovo mondo possibile

Le tracce del passaggio in terra di Giovanni Alberto Agnelli sono ovunque nel mio quartiere. Quando vado in banca passo davanti al museo aziendale a lui intitolato, voluto fortemente non per celebrare il brand ma il lavoro delle persone e l’evoluzione della comunità attorno all’azienda. Tanti dicono che i dipendenti sono il cuore pulsante di ogni realtà imprenditoriale: meno normale che alle parole seguano i fatti. Al cinquantenario della Vespa, Giovannino disse che “le persone sono all’origine della nostra forza. Sono la risorsa e l’intelligenza dell’organizzazione. Il coinvolgimento a ogni livello, il lavoro in squadra, la condivisione degli obiettivi sono necessari per la realizzazione della nostra missione”.

Discorsi già sentiti, certo, ma seguiti anche da atti concreti, come l’investimento nel laboratorio della Scuola Superiore Sant’Anna, proprio lì davanti al museo, uno dei centri all’avanguardia nella robotica. L’incubatore di imprese ad esso legato ha prodotto parecchi brevetti e fornisce impiego a molti giovani di talento senza essere costretti a lasciare l’Italia. Visto il suo ruolo ebbe parecchie frequentazioni politiche, prima tra tutte quella con Walter Veltroni, che ebbe più volte a lodare le sue idee innovative e la sua attenzione al lato etico dell’impresa.

Ai politici locali piaceva perché voleva che il territorio crescesse con l’impresa, stringendo relazioni con la comunità, un approccio intelligente visto che in passato tra la politica e la Piaggio non era spesso corso buon sangue. Anche in questo Giovannino era pragmatico: se da un lato parlava di “responsabilità sociale” e di “impatto ambientale”, dall’altro si scagliava contro il cuneo fiscale e la eccessiva pressione delle tasse su imprese e cittadini. Anche in questo si dimostrava speciale: in Italia piacere sia alla destra che alla sinistra è un’impresa quasi impossibile.

Giovanni Alberto Agnelli con Frances Avery Howe
Giovanni Alberto Agnelli con la moglie Frances Avery Howe

La fine del sogno

Quando non sognava un mondo nuovo, fatto a sua immagine e somiglianza, lo scapolo d’oro dell’alta società italiana aveva trovato tempo di mettere la testa a posto. Non aveva scelto una star del cinema o della televisione ma una ragazza normale, un architetto conosciuto ai tempi dell’università, l’anglo-americana Frances Avery Howe. Non aveva niente a che spartire con le cronache da rotocalco, aveva la sua carriera e poco tempo da perdere con la mondanità. Gentile, alla mano, classe innata, la compagna perfetta per il futuro capitano dell’industria più importante d’Italia. Cosa ancora più importante, alla complicata famiglia Agnelli piaceva pure. Giovannino era stato scelto per portare pace in una casata notoriamente turbolenta, ricomponendo la frattura tra Gianni e Umberto.

Tutto sembrava scritto nel suo futuro: una crescita graduale delle responsabilità a Torino, il lento disimpegno da Pontedera, testimoniato anche dalle visite sempre più frequenti allo stadio per seguire la Juventus. Niente scandali, niente pettegolezzi, un ragazzo coi piedi per terra, pronto per guidare il gruppo industriale più importante del paese verso il nuovo millennio. Quando il 16 novembre 1996 sposò l’architetto dal sorriso gentile, sembrava il coronamento di un percorso da favola, seguito dall’ennesima buona novella, l’arrivo di un bambino.

Poi, il fulmine a ciel sereno, quella conferenza stampa improvvisa, l’annuncio del tumore. Il sorriso era quello di sempre, accompagnato dal proverbiale ottimismo: “Guarirò entro l’estate, state sicuri”. Le visite sempre più frequenti nei migliori centri specializzati negli Stati Uniti, quel silenzio che sembrava rassicurante, rallegrato dalla nascita della figlia il 16 settembre. Tutto sembrava andare per il meglio, tanto da consentirgli di andare a vedere la sua Juventus al Delle Alpi, in Champions League contro il Manchester United stellare di Ferguson. Quando arrivò la notizia che, tre giorni dopo, il delfino di casa Agnelli si era spento, fu uno choc che nessuno si aspettava davvero. Il proverbiale riserbo piemontese era riuscito a tenere nascosta la gravità della situazione ma nessuno voleva credere che quel ragazzone venuto da lontano potesse davvero morire così, a soli 33 anni, con un futuro tanto radioso davanti a sé.

Tifosi Juve Giovannino
Striscione dei tifosi della Juve dopo la morte di Giovanni Alberto Agnelli

Vivere senza Giovannino

Da quel giorno di 25 anni fa tutto è cambiato. Gli Agnelli hanno perso il controllo della Fiat, i due rami della famiglia a malapena si parlano, la Juve è finita in serie B e ora è di nuovo coinvolta in uno scandalo. Il cammino di rinnovamento di una realtà legata a triplo filo a quella “fabbricona” sembra essersi bloccato lì, a quel 13 dicembre 1997.

La Piaggio è sempre viva, ma non sogna più di conquistare il mondo. Il museo che porta il suo nome attira turisti da tutto il mondo ma sembra una presenza quasi estranea in una cittadina che non è più innamorata di quell’azienda che ne porta il nome nel mondo. Chissà, in futuro forse i semi che aveva piantato 25 anni fa riusciranno a creare nuove realtà capaci di farsi strada all'estero, ma c’è voluto molto per risvegliarsi da quel bellissimo sogno. Martedì alle 17.30 nella chiesa nata a pochi passi dalla fabbrica e dal quartiere costruito per alloggiarne gli operai, tanti normali cittadini hanno deciso di riunirsi per una funzione religiosa spontanea, per ricordare il “loro” figliol prodigo, quel ragazzo che sorrideva sempre e ti faceva credere che un mondo migliore fosse davvero possibile. Non so se ci saranno politici o discorsi ufficiali ma spero proprio di no.

Questo paese troppo cresciuto ha bisogno di un momento vero, senza retorica, per raccogliersi e metabolizzare quella perdita che, nonostante sia passato un quarto di secolo, fa ancora tanto male. Spero che ricordarlo ci serva a guardarci allo specchio e tornare a credere che l’unico modo per uscire dalla situazione nella quale ci troviamo è rimboccarsi le maniche e trovare il coraggio di ripensare il nostro presente.

Se succedesse davvero, sarebbe il modo migliore per ricordare quel ragazzone venuto da lontano che non aveva paura di sognare. Se questa fosse la sua unica eredità, sono sicuro che Giovannino ne sarebbe felice.

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