«Avrei dovuto farmi giustizia da solo»

RomaLe parole escono fuori come lacrime: partono veloci e poi, di colpo, rallentano, senza smarrire lo stesso fastidioso retrogusto. Sommano «vergogna», «ingiustizia» e «scandalo». Sono parole scontate, prevedibili, senz’altro lecite in casi come questo. Grondano rabbia, dolore e, peggio, rassegnata impotenza. Arrivano dalle voce rotta di Giuseppe Picano, il fratello di Marco, l’uomo ucciso da un romeno ubriaco lo scorso 6 febbraio. «Martedì - spiega - è come se fosse morto per la seconda volta. Se per la legge è giusta una condanna a tre anni dopo tutto quello che è successo, io non so più che cosa dire».
Provi invece a trovare le parole.
«Ma ci vogliamo rendere conto di come sono andate le cose? Quel folle ha commesso un omicidio, ne ha sfiorato un altro ed è andato a prendersi una birra come se niente fosse. Guidava senza patente, contromano e dopo aver bevuto di tutto. Ebbene, prima di Natale potrebbe essere libero. Non posso crederci».
Che tipo di condanna si aspettava la sua famiglia?
«Non una così ridicola. Il messaggio che trasmette è chiaro: in questo Paese si può fare di tutto, ma veramente di tutto, tanto le conseguenze sono minime. Ora però io voglio una spiegazione, qualcuno che venga da me e dai miei genitori e si assuma le sue responsabilità, permettendoci di capire come si è arrivati a un verdetto del genere. O hanno sbagliato tutto, e allora ricominciamo daccapo, o devono avere il coraggio di motivare le loro scelte. A quel punto, forse, potremo metterci l’anima in pace. Ma dubito che succederà».
Il suo avvocato cosa le ha detto in proposito?
«Cosa poteva dirmi, è incredulo quanto me. Non possiamo non chiederci con quali criteri vengano giudicati reati simili, visto che mi è sembrato di capire che non si tratta di un fatto isolato. È il sistema a essere slegato dalla realtà, fa di tutta l’erba un fascio. È una logica devastante: mi ha telefonato mia zia Mariagrazia dall’America e vi assicuro che stentava a crederci, per un attimo ha pensato che la stessi prendendo in giro. E poi, è possibile che non abbia avuto alcun peso il fatto che viaggiava su una vettura rubata?».
Ritorniamo per un attimo a quella notte. Qual è il ricordo più nitido che conserva?
«Il tentativo di linciaggio di quell’uomo. Il botto è stato fortissimo, se ne sono accorti tutti là intorno, ma lui ha fatto finta di niente. Si è allontanato ed è entrato nel primo bar per continuare a bere. La gente voleva saltargli addosso, ma i carabinieri lo hanno protetto chiudendolo in un’ambulanza. In un primo momento ho avuto delle perplessità, ho pensato che magari era la cosa giusta, ma ora sono convinto che sarebbe stato meglio se fosse finita lì, se qualcuno avesse fatto giustizia per noi. Sarebbe bastato distrarsi, girarsi dall’altra parte, fare finta di niente».
Come stanno i suoi familiari?
«Mio padre ha gli incubi. Di notte urla. E mia madre prende dei farmaci. Avevamo cominciato a riprenderci, a convivere con questa perdita, ma dopo questa sentenza siamo ripiombati nell’incubo del primo giorno. Io provo a farmi forza per sostenere i miei genitori, ma non è affatto facile. Vorrei sapere quanti altri morti ci dovranno essere sulle strade prima che le leggi vengano cambiate. Soprattutto, quante altre famiglie costringeranno a convivere con il dolore che stiamo provando noi?».
Cosa farete ora?
«Non ci vorremmo arrendere, ma come ci ha spiegato il nostro legale possiamo fare veramente poco perché c’è stato un patteggiamento. Comunque non penso che una nuova sentenza cambierebbe chissà cosa, con questa storia ho smesso di credere ai miracoli: al massimo prenderebbe altri quattro mesi».
Molti esponenti del mondo politico, ad ogni modo, si sono schierati dalla vostra parte.
«Lo so. Quando è successa questa tragedia mi sono limitato a esprimere un desiderio con quelli che ci hanno fatto pervenire la loro solidarietà: volevamo che quel romeno fosse messo dentro senza farlo più uscire perché si tratta chiaramente di un omicidio volontario. E invece abbiamo dovuto sopportare questa beffa. Sono interdetto, non esiste la certezza della pena, non ci sono garanzie per i cittadini onesti, che tutti i giorni si alzano all’alba e vanno a compiere il loro dovere. Tanto vale diventare dei delinquenti».
Aveva mai affrontato questo tema con suo fratello?
«Sì e lui pensava che quelli che guidano ubriachi o sotto effetto di droga e danneggiano qualcuno meritano la pena di morte. Sono degli assassini, non esiste un altro modo per definirli. E invece per la giustizia italiana la vita di mio fratello vale soltanto tre anni. Meno di niente».


Un’ultima cosa. Come descriverebbe Marco?
«Era un uomo molto buono, pacifico, che non avrebbe fatto del male a una mosca. Era pieno di vita e aveva tanti progetti. Fa un male atroce pensare che non ne potrà realizzare neanche uno».

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