“Imprenditore si può nascere o lo si può diventare, dipende dalle opportunità”, si apre così l'intervista all’imprenditore Valerio Matanò presidente del Gruppo Promoitalia, società napoletana specializzata in soluzioni di bellezza dal 1998, e di VM Corporation, oltre che fondatore della rete internazionale di cliniche in franchising - Promoitalia Anti-Aging Center, nate nel 2016. Laureato in economia con specializzazione in trade marketing, le sue aziende, partite dall’Italia, operano ora in 91 paesi in tutto il mondo. Ha uffici in Russia (Mosca), Stati Uniti (Miami), Ucraina (Kyiv), Italia (Milano e Napoli) e ancora Dubai, Vancouver, Barcellona, Londra, Monaco di Baviera, Atene e Singapore.
Con Promoitalia inoltre, ha anche dato vita, nel centro del quadrilatero della moda di Milano, ad un'accademia di formazione, la Promoitalia Academy, uno spazio dedicato alla formazione medico-scientifica di alto livello. Il numero di filiali dimostra come la professionalità italiana sia apprezzata all’estero, e forse un po’ meno nel nostro Paese, dove dalle parole di Matanò, si comprende la difficoltà di fare impresa in Italia, nonostante sia un Paese dalle enormi potenzialità.
Secondo lei imprenditore si nasce o si diventa?
“A parte alcuni fattori, come la fortuna che possono aiutare, secondo me per diventare imprenditori, bisogna essere prima di tutto dei sognatori. La differenza però, è che tutti hanno grandi sogni, ma spesso vengono lasciati nei cassetti, l’imprenditore invece dal pensiero passa all’azione e al progetto. Poi deve trasformare il tutto in reddito, che è la cosa più importante”.
Lei come ci è diventato?
“Per necessità, uscendo dalla mia comfort zone. Avevo appena iniziato l’università e dopo un contrasto con mio padre, ho deciso di andare via da casa. Avevo 18 anni, e all’epoca, parliamo di 28 anni fa, in Italia non era semplice per un ragazzo mantenersi da solo. Però quel punto di rottura, nato per una banale discussione, mi ha aperto una nuova strada nella vita, una 'necessità', diventata poi virtù con le mie aziende”.
In quel momento ha pensato di andare all’estero o rimanere in Italia?
“All’epoca Il mio unico obiettivo era trovare un lavoro e mantenermi; andare all’estero era fuori da ogni ottica. Soltanto poi, lavorando ‘sul campo’, ho capito l'importanza che ha il nostro Paese fuori dai confini, ma la mia azienda è nata e cresciuta in Italia. Ho iniziato aprendo il giornale e leggendo le varie proposte di lavoro. Quasi tutti cercavano camerieri o bartender, quello che ha colpito la mia attenzione era un annuncio dove si cercava: ‘un venditore per il mercato della bellezza’. Non sapevo di cosa si trattasse, ma sono comunque andato a parlare con l’azienda e ho iniziato. Ho fatto esperienza per due anni, facendo tanta gavetta e cercando di capire come muovermi in quello che era un mercato agli albori, ancora tutto da inventare. Non esisteva all'epoca la figura del chirurgo estetico e questo mi ha fatto capire che la mossa giusta non era solo quella di vendere, ma di formare, spiegando ai medici come usare prodotti e macchinari innovativi nel campo della bellezza, che da lì a poco sarebbe esploso. Dopo pochi anni infatti, ho aperto la mia prima società. Non nascondo che per pagare il notaio ho dovuto vendere la macchina, ma nonostante fosse solo l'abbozzo di un progetto futuro, già il nome che ho scelto, rappresentava tutta la mia visione. L’ho chiamata Promoitalia ovvero ‘promozione dell'Italia a livello mondiale'. Un sogno, che dopo 8 anni si è avverato, quando ho varcato i confini del nostro Paese”.
In una recente intervista, il ministro del turismo Daniela Santanché ha parlato del “brand Italia”. Lei è stato un precursore?
“Già 20 anni fa portavo avanti questo progetto, quando l'Italia esportava in maniera massiccia, moda e prodotti alimentari. Oggi è più difficile, perché nel nostro Paese c’è ancora tanta creatività, ma abbiamo perso la progettualità, l'organizzazione e la strategia, e questo purtroppo, ha fatto in modo che i nostri grandi marchi siano finiti in mano a società estere, soprattutto orientali. Emiri e patron cinesi, stanno comprando ormai da tempo molte delle nostre eccellenze”
Come imprenditore che tipo di accoglienza ha trovato all’estero?
“Ho iniziato 25 anni fa durante un viaggio di piacere a Tallinn in Estonia, un posto che in Italia nessuno conosceva, ma che in quel periodo usciva dalla sfera sovietica e voleva allargare i suoi mercati verso l’Europa. In quel momento, ho toccato con mano come fosse facile aprire un’azienda lì: sono bastati due giorni, facendolo anche telefonicamente. Al contrario, in Italia già all'epoca era complicatissimo e dovevi passare per un’infinità di vie. Non solo, mi ha stupito anche quanta attrazione aveva il Made in Italy all’estero, in Estonia, ma anche Francia e Spagna, tutti mercati a cui poi mi sono rivolto, ricevendo, come imprenditore, grandi agevolazioni”.
Lei che ha il polso della situazione, quali sono le criticità italiane nel fare azienda?
“È un sistema vecchio, a mio parere poco flessibile per i mercati attuali, e inoltre c'è troppa burocrazia. Oggi l’imprenditore deve essere facilitato, deve avere velocità di fare l'investimento e di recuperarlo. Ma la burocrazia questa rapidità non la permette. Esistono mercati più dinamici, ma soprattutto più giovani dell’Italia, dove invece ci sono tanti problemi e un’operatività lavorativa molto difficile da attuare, anche per quanto riguarda la forza lavoro”.
Anche nel suo settore c’è difficoltà a reperire capitale umano?
“Quella della forza lavoro più che un problema italiano è una questione culturale. Si è perso il ‘valore’ della gavetta. Una delle prime cose che mi chiedono durante un colloquio è quante ore si fanno e se si lavora di sabato o domenica, considerati sacri. È giusto informarsi, ma lo è altrettanto fare esperienza. Senza voler fare paragoni, quando ho iniziato, non guardavo alle ore, perché avevo una progettualità e il desiderio di costruire. Questo tipo di percorso è stato fondamentale per andare avanti. Ho grande timore per le prossime generazioni, anche per i miei figli, perché non esiste più la pazienza della costruzione. Dopo un mese di lavoro ci si aspetta subito un aumento, senza rendersi conto che quello si ottiene quando arriva il risultato. Ci troviamo in un mondo molto competitivo, non basta più uscire dall’università, serve anche fare esperienza di ‘strada’ se si vuole andare avanti”.
Mai come in questo periodo c’è lo spettro del rischio imprenditoriale. Come si affronta?
“Con la pianificazione, bisogna sempre mettere in conto una percentuale di rischio, anche se, secondo me, per fare l'imprenditore devi anche essere in grado di seguire l’istinto, anche quando possono esserci margini di rischio. Altrimenti non si cresce”.
Sia il Covid prima, che la guerra Ucraina poi, hanno bloccato molti mercati importanti come quello russo. Com’è ora la situazione mondiale, quali equilibri sono cambiato e che mercati alternativi ci sono?
"Per chi come me ha aziende all’estero con investimenti importanti, da una parte il Covid è stato una cosa molto pesante; perché l’impossibilità di muoversi e di viaggiare ha bloccato tutto, dall'altra parte però, nel momento in cui il mondo si è riaperto, anche se a macchia di leopardo per noi è diventato un vantaggio, perché si sono affacciati nuovi mercati. Penso ad esempio a Dubai, che nel periodo della pandemia, era diventato un luogo dove si potevano incontrare imprenditori da ogni parte del mondo, senza andare nelle loro nazioni che magari era chiuse come Cina o la Corea. Sicuramente non è stato facile, ma le difficoltà fanno crescere, e anche in quel caso ci siamo riusciti battendo zone dove prima non mettevamo tanta energia, perché privilegiavamo quelle più facoltose come la Russia. Quello ad esempio, è un mercato che ci ha fatto perdere molto, ma allo stesso tempo ci ha aperto a nazioni vicine come l'Azerbaigian, l' Armenia o il Kazakistan. Questo per dire che c'è sempre un'opportunità e un modo, bisogna solo essere freddi, concentrarsi e capire come agire”.
Ha avuto più timore all'inizio, quando doveva creare le sue aziende, oppure ora, che ne ha molte da mandare avanti?
“Non ho avuto paura nè prima nè oggi. Mi sento fortunato perché sto seguendo il progetto della mia vita, ed essere imprenditori significa fare anche quello che ti sei prefissato e realizzare il tuo sogno. Ovviamente ci metto la dovuta attenzione, ma non ho timore. La paura genera tensione negativa, invece bisogna sempre essere positivi”.
Quante ore al giorno lavora?
“Non considero il mio un lavoro; è questo il concetto”.
Se dovesse dare un consiglio ad un ad un giovane che ha il suo stesso sogno, quale sarebbe?
“Come dicevo prima, di fare molta gavetta. Solo chi esce 'per la strada' può crescere, non chi rimane nella zona comfort. Altra cosa importante per arrivare a fare grossi risultati, è scegliere qualcosa che ti piace. Passiamo mediamente il 70% della nostra vita al lavoro, è fondamentale quindi che sia qualcosa che ci motivi veramente”.
Ha scelto di mandare i suoi figli a studiare all’estero, o ha preferito l’Italia?
“Ho un bambino di quattro che considero fortunato perché essendo nato all’estero parla già tre lingue. Mia figlia maggiore, di 18 anni, è invece nata in Italia, ma fin da subito l’ho mandata alla scuola americana per confrontarsi con bambini di madrelingua. Quello che consiglierei a qualsiasi genitore, anche se sto parlando per me, è fare in modo che i propri figli imparino diverse lingue. Solo in questo modo potranno scegliere il lavoro che vorranno e decidere se rimanere in Italia o all’estero".
Quale lingue consiglierebbe di studiare in questo momento?
"Principalmente
l’Inglese, ma altrettanto importante è lo spagnole che è la seconda lingua più parlata al mondo. Poi qualche lingua particolare come l’arabo o il cinese. Facendo questo è come consegnare ai nostri figli le chiavi del loro futuro”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.