Ballen, scatti su un mondo surreale

Alienanti, amare, cervellotiche. Queste le sensazioni davanti agli scatti di Roger Ballen, autore americano trapiantato in Sud Africa di cui è allestita una retrospettiva alla Triennale fino al 15 novembre. Sembrano foto brutte. Ma osservandole meglio, quasi assecondando il bisogno di comprensione, ci si accorge che è l’artista a scegliere soggetti ripugnanti. E lo fa inseguendo i suoi pensieri e i nostri. Un dito morso da un serpente, bimbi e bambole sporchi, maschere annerite, materassi sgualciti, topi, la testa di un maiale che nemmeno sanguina più. «La fotografia – esordisce Ballen – non è racconto della realtà, ma trasformazione soggettiva di ciò che è reale in ciò che sta nella mia testa». Una radicale forma di personalizzazione che nell’ultima fase del suo lavoro arriva all’estremo, al surrealismo. Forti le influenze di fotografi come Man Ray, Andre Kertesz o Hans Bellmer, evidenti le rievocazioni dello stile sfuggente di Dubuffet e Twombly, sottolineate dai graffiti presenti su muri o lenzuola usate nelle scenografie. Come veri tableaux vivants (che ricordano gli interni decadenti di Jan Saudek o i teatrini macabri di Joel Peter Witkin in mostra lo scorso anno al Pac), come piccole botteghe di rigattieri, catturano il nostro sguardo malgrado noi. Sono complesse, piene di dettagli, di cambiamenti e simboli che ognuno interpreta secondo sensazione. «La gente difficilmente capisce la fotografia – prosegue provocatorio – perché quasi nessuno la guarda davvero. Bisogna pensare che si tratta di opere d’arte, non di una riproduzione del reale. Le mie immagini rappresentano se stesse, si tratta di paesaggi umani mentali. Solo interpretandole così sarete sulla buona strada». Famosi i suoi gemelli con la camicia sporca di bava che cade dalle labbra, pugno allo stomaco che è impossibile cancellare dalla mente. Presa in esame l’intera carriera, cominciata nel 1982 e in continua trasformazione stilistica. I suoi lavori sono al Centre Pompidou di Parigi, al Moma di New York e al Victoria and Albert Museum di Londra. Dai suoi bianchi e neri ossessivi emerge una umanità sofferente che si mette in posa con ironia e candore inscenando le nostre paure e la vulnerabilità della vita.

«Non amo il colore – conclude Ballen - il bianco e il nero sono più adatti a me, più formali. Non distolgono l’attenzione dal senso che voglio dare. Ogni elemento ha qualcosa da raccontare per scoprire cosa sta dentro noi stessi».

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