Nella lunga teoria di luoghi comuni sulle medaglie d'argento «che valgono come un oro», propugnate in genere dai perdenti e dai loro cantori, poche si avvicinano alla realtà come quella conquistata dalla nazionale spagnola di basket nella splendida finale contro gli Stati Uniti, una delle più grandi partite della storia olimpica per il livello delle sfidanti.
Conquistata, certo, nonostante la sconfitta 118-107: perché la Spagna, campione del mondo due anni fa, beffata sulla sirena nella finale degli Europei casalinghi nel 2007, ha tenuto lì gli americani fino a meno di un minuto dal termine, e non si è arresa, semplicemente perché non vedeva per quale motivo si dovesse arrendere. Ed è questo atteggiamento che rende gli iberici una grande forza nel basket: ritenere di poter vincere anche quando gli americani preparano la loro migliore squadra degli ultimi anni, una squadra vera, con tanti giocatori di altissimo talento disposti però a sacrificarsi per il bene comune, aggiungendo un tocco di umanità che non c'era stato quattro anni fa ai Giochi di Atene, dove l'atteggiamento di troppi protagonisti era stato altezzoso e sprezzante, e non per nulla solo quattro di loro hanno poi fatto parte dell'attuale gruppo.
Kobe Bryant nella finale ha lasciato scarse tracce fino all'ultimo quarto, quando ha segnato 13 punti, mentre Dwyane Wade, guarito dai guai fisici dell'ultimo biennio, ne ha fatti 27 con 9/12 al tiro, in più altri giocatori come Carmelo Anthony e LeBron James hanno prodotto momenti sublimi, ma è indubbio che il pubblico neutrale, anche quello meno pronto a ricorrere a maradonistiche teorie del complotto sui favoritismi arbitrali per compiacere la NBA (perché, poi? E nel periodo 2002-2006 allora?), è rimasto colpito da quello che sul parquet hanno fatto alcuni giocatori spagnoli, del resto tutt'altro che perfetti sconosciuti: non tanto Pau Gasol, protagonista alla fine di un lungo abbraccio con il compagno di squadra (nei Lakers) Bryant, né il fratello Marc, e forse neppure Rudy Fernandez che con una faccia tosta ben conosciuta in Europa ma forse non a tutti i giocatori americani (ai dirigenti sì, visto che nel 2008-09 giocherà nei Portland Trail Blazers), ha segnato 22 punti in 18' con 5/9 da tre, bensì il catalano Ricardo «Ricky» Rubio, 18 anni solo il prossimo 21 ottobre, ora più giovane vincitore di una medaglia olimpica nel basket ma già debuttante nel campionato spagnolo a nemmeno 15 anni con la Joventut Badalona, stesso club di Fernandez.
Esile e con una frangetta che gli copre quasi gli occhi, è già una sorta di mito per molti tifosi europei rapiti dal suo trattamento di palla, dal suo estro per il passaggio creativo e dal suo mettere queste doti al servizio dei compagni. Un talento che lo ha portato ad essere soprannominato il «Magic Johnson spagnolo».
Nella finale, assente José Calderon, Rubio ha giocato 28 minuti tenendo il campo benissimo di fronte a gente come Chris Paul, quasi Mvp della NBA lo scorso anno, e mostrando le qualità di fantasia e coraggio che lo hanno reso uno dei giocatori più seguiti del Vecchio Continente.
«Il basket non è una sfida individuale, ma cinque contro cinque, più la panchina» aveva dichiarato poche settimane fa in una rara intervista, e detto da uno che in uno contro uno può superare chiunque, magari chiudendo con un passaggio dietro la schiena
che spiazza la difesa, è proprio il colmo. Ma visto come hanno faticato ieri quelli del Dream Team, l’America del basket sa che il futuro ha già una faccia - per loro - non del tutto raccomandabile: quella di Magic Rubio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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