A più di mezzo secolo dalla sua morte, emerge sempre più chiaramente la grandezza di Ennio Flaiano (1910-1972) nella cultura italiana del '900. Spesso liquidato come brillante epigrammista e «sceneggiatore di Fellini», Flaiano è stato invece uno schivo ma rilevante protagonista della scena giornalistica, artistica, televisiva, letteraria, teatrale e cinematografica del secondo dopoguerra, come dimostrato dal libro Ennio Flaiano oltre i luoghi comuni, curato da Alberto Pezzotta (Mimesis, pagg. 254, euro 22), che raccoglie gli atti del convegno organizzato nel novembre 2023 dallo Iulm di Milano. Di solito, volumi del genere sono destinati agli specialisti perché contengono dotte ma noiosissime relazioni, contributi sicuramente utili alla carriera accademica di chi li redige, ma quasi invariabilmente indigesti al lettore comune; in questo caso, invece, ci troviamo di fronte a una fortunata eccezione, ovvero a un libro godibile da chiunque abbia letto e apprezzato l'autore di Un marziano a Roma.
Nato a Pescara e trasferitosi a Roma come studente di architettura - mai laureatosi -, nel 1935 Flaiano partecipa alla Guerra d'Etiopia come ufficiale di complemento, collabora come giornalista a varie testate, dal settimanale Quadrivio diretto da Telesio Interlandi a Oggi, da riviste di cinema a Mediterraneo e nel 1944 diventa capocronista di Risorgimento liberale di Pannunzio. La vera svolta avviene nel 1947, quando Leo Longanesi gli pubblica - dopo averlo sollecitato a scriverlo - un romanzo sulla guerra d'Etiopia, Tempo di uccidere, che vince il Premio Strega e lancia l'autore nel pantheon letterario nazionale. Ennio Flaiano non scriverà altri romanzi, ma continuerà a brillare come giornalista, critico e soprattutto sceneggiatore cinematografico, meritandosi tre nomination agli Oscar: tra il 1942 e il 1970 collabora, a vario titolo, a circa una sessantina di film, da La notte di Antonioni a dieci soggetti o sceneggiature di Fellini, tra cui I vitelloni, Lo sceicco bianco e La dolce vita, che gli valse un Nastro d'Argento.
A una nota biografica pubblicata sull'Espresso di Arrigo Benedetti che lo indicava anche come regista, replicò, con la consueta ironia: «Non sono regista. Mi sembra prudente aggiungere che non sono nemmeno attore, operatore, musicista e produttore. Di solito sono spettatore (...). Quanto alle mie ambizioni, sono il turismo, l'astronomia, la calligrafia, l'etruscologia, la vulcanologia e la letteratura; insomma, quelle di tutti». Cresciuto, anche professionalmente, durante i cosiddetti anni del consenso del regime fascista, Flaiano è, dopo il 25 luglio 1943, un longanesiano ante litteram e, come ricorda nel suo contributo Franco Grattarola, dalle colonne di Risorgimento liberale ironizza sul nascente conformismo antifascista, che porta a cambiare nome persino al Corriere dei Piccoli, compromesso col regime e ribattezzato Giornale dei Piccoli: cambiamento «totale e programmatico sicuramente voluto dalla massa infantile lombarda, gelosa del suo onore e della sua dignità». Allo stesso modo prende in giro la proposta di un «partito unico antifascista», chiedendosi se «avremo gli antifascisti della prima ora o quelli cosiddetti antemarcia».
Eclettico, brillante, spiritoso e autoironico, Flaiano amava la chiarezza e la precisione, unici antidoti contro la deriva morale, anche se forse è rimasto un autore che si evoca ma non si legge, si cita per darsi un tono da scettico fustigatore dei costumi, ma spesso si sbaglia la citazione, afflitti da quella che Giovanni Russo definì, con malinconica precisione, «flaianite». In molte interviste, lo stesso scrittore pescarese si schermisce: «Scrivere non mi piace, mi spaventa. Di tutto ciò che ho scritto ci saranno sì e no tre pagine che non mi disgustano... il guaio è che non sono nemmeno una di seguito all'altra». Coglie bene il punto Enrico Vanzina, che nel suo intervento suggerisce una azzeccata somiglianza di Flaiano con il Jep Gambardella della Grande bellezza di Sorrentino: scrive, frequenta, incontra, ammalia, stupisce, entusiasma il mondo della mondanità culturale italiana che lui detesta, ma sa che quel mondo lo considera, anche senza ammetterlo, il più intelligente... e a lui basta questo.
Grazie anche al suo disincanto, Flaiano è sopravvissuto ai
suoi tempi e a molti suoi contemporanei, per giungere tra noi ancora in ottima salute, diventando, come scrive Rocco Moccagatta, «un modo di essere e di guardare la realtà, uno stato d'animo, una categoria dello spirito».
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