E siamo a quota trentanove. Questa volta il patatrac è sull’amianto. La maggioranza va sotto in commissione sul ddl lavoro. È un emendamento che tutela i diritti di chi fatica sulle navi di Stato. Ormai è un vizio. Il problema è evidente: nel Pdl si chiacchiera troppo e si lavora poco. Si gioca alla guerra e non si governa. La votazione è finita sedici a sedici. La parità significa che è stato bocciato. Non è un cataclisma. Non succede nulla, fra una settimana ci si rivede di nuovo e si mette la solita pezza, solo che questi passi, sempre più frequenti, cominciano a diventare irritanti. Non hanno nulla a che fare con le scelte politiche. Non ci sono neppure i dispetti da prima Repubblica dei franchi tiratori. Non si cade perché si vola alto. Nulla di tutto questo. Si inciampa per distrazione, superficialità, menefreghismo, roba da dilettanti che pensano alla primavera. È questo che dà fastidio. È sentire che il Pdl come partito, come gruppo parlamentare, non è ancora affidabile. Come se fosse svogliato, sempre lì a dare l’impressione del «ma chi se ne frega». Tipo Balotelli? Ecco, quasi. Il Pdl troppo spesso sembra così. La «questione Fini» non è l’unica causa di tutto questo, ma di certo non aiuta la crescita del partito, che tuttora fatica a digerire la fusione. Qui si parla di protocolli, firme, carte, inchiostri, quelli che hanno firmato per Giancarlo e quelli che hanno messo nome e cognome dall’altra parte. Qui si parla di correnti, di separazioni in casa, di scissioni evocate come profezie Maya, di Granata e Bocchino, di Urso e Perina, di Farefuturo e Generazione Italia, di cosa farà Fini da grande. E il governo? Sta lì, con il pilota automatico, come un accessorio inutile. Il rischio è che i tre anni senza elezioni, quelli indispensabili per ridare una rotta a questo Paese, quelli che devono chiudere le mille emergenze, quelli che servono a suturare le ferite della crisi, con un Paese reale in deficit di portafoglio, di consumi, di investimenti e di speranze, vengano sprecati a chiacchiere. Tre anni così, a parlare del mal di pancia di Fini. Tre anni di puro masochismo. Il cofondatore non si riconosce più nel suo partito. È deluso, amareggiato e ha spiegato le sue ragioni, che a questo punto sono chiare a Berlusconi, a ogni singolo onorevole e senatore. Sono chiare a tutti. Non c’è più nulla da discutere. È l’ora delle scelte. Fini vuole fare la corrente di minoranza? La faccia e se ne assuma gli oneri. Vuole fare un altro partito? Si decida. Non trasformi il partito in un lettino da psicanalista. Non è teatro. Non è l’Amleto. Essere o non essere. Vado, resto, aspetto. Qui, banalmente, c’è da lavorare. Fini si batte per il futuro dell’Italia. Perfetto.
Fini sostiene che le sue questioni servono a tutto questo, a fare le riforme: fisco, welfare, lavoro, istituzioni. Si facciano. Oggi. Subito. La corrente dei finiani non è d’interesse pubblico. È un affare per pochi intimi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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