Muammar Gheddafi si è asserragliato nell’ultimo bunker di Sirte andando incontro al suo destino di polvere e sangue. In fondo è morto come aveva vissuto, sul filo del rasoio, in una sorta di piazzale Loreto libica. Non era l’Hitler del Nord Africa, ma aveva le mani tremendamente sporche di sangue non solo del suo popolo. Da un certo punto di vista quella dell’ex raìs è una fine con «onore», che non fugge ma combatte senza speranza nell’ultima roccaforte del suo regime spazzato via. L’aveva annunciato lui stesso nell’ultima intervista, data al Giornale il 15 marzo. Davanti al vento di rivolta araba il presidente tunisino Ben Alì è scappato con la coda fra le gambe e il faraone Hosni Mubarak è stato costretto alla sbarra su una barella. «Sono ben diverso da loro - aveva tuonato il colonnello -. Non ho paura». Neppure di morire a quasi 70 anni, forse dal colpo di grazia di un ragazzino con in pugno la pistola d’oro che Gheddafi portava sempre con sé.
Altro che fuggito in qualche esilio dorato e nascosto, o al comando dei Tuareg fra le sabbie del Sahara. Il ricercato numero uno per crimini di guerra si è trincerato a Sirte, dove è nato da una famiglia umile. Sembra che fosse nascosto in una buca, come Saddam, per proteggersi dalle bombe dei ribelli e della Nato. Avrà anche detto «non sparate», magari credendosi ancora «il fratello leader» come lo chiamavano i suoi. Si è trovato davanti i ribelli assetati di vendetta. Destino di tanti dittatori: lo hanno linciato e ammazzato in piazza trascinandolo per strada come un trofeo, come dimostrano i primi video e il volto tumefatto catturato da un telefonino. In fondo con la sua tragica fine il colonnello ha fatto veramente voltare pagina alla Libia. Molti cantano e ballano dalla felicità, ma quanti lo rimpiangeranno? In fondo ha tirato fuori il paese dal passato monarchico costruendo scuole, strade ed ospedali grazie al petrolio. Ronald Reagan lo definì «il cane pazzo» del mondo arabo e forse aveva ragione, ma per decenni a ogni anniversario del suo golpe rivoluzionario del 1969 la gente andava in piazza non solo a forza. Compresi molti dei leader dei ribelli, che lo hanno giustiziato sul posto dopo averlo catturato.
Amico dei terroristi di mezzo mondo Gheddafi era stato, però, vezzeggiato a fasi alterne dagli occidentali, compresi i governi italiani di tutti i colori. La sua guascona baldanza a voler finire a tutti costi ammazzato, invece che al sicuro in Venezuela, ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tante cancellerie. Vi immaginate che show avrebbe messo in piedi Gheddafi da una platea internazionale come il tribunale de L’Aja, dove lo avevano accusato di crimini di guerra? Altro che le bordate di Slobodan Milosevic e le sceneggiate di Saddam Hussein suoi predecessori finiti sotto processo.
Un beduino non si ingabbia, tantomeno se l’onnipotenza del potere lo porta ad autonominarsi il «re dei re» dell’Africa. Da beduino, però, Gheddafi continuava in parte a vivere. Fuori dalla sua tenda, al centro di Bab al Azizya a Tripoli, dove ha rilasciato l’intervista al Giornale, pascolava una mucca pezzata, come fossimo in Svizzera. Lo stesso colonnello amava mungerla per bersi un bicchiere di buon latte ogni mattina.
Gheddafi visto da vicino tradiva i suoi vezzi: dalle rughe nascoste grazie al bisturi, ai riccioli tinti di nero. Anche se aveva dei sosia, il volto insanguinato che si è intravisto ieri a Sirte sembra proprio il suo, nonostante il colonnello avesse più di sette vite. Nel 1986 una soffiata di Bettino Craxi lo salvò all’ultimo secondo da un missile mirato, che incenerì la dimora fortificata di Bab al Azizya. Altre volte è sfuggito per un soffio a falliti attentati salvato in un’occasione da una delle sue amazzoni, che gli fece scudo con il corpo.
I figli con le palle hanno seguito il suo destino. Khamis ammazzato in un’imboscata dopo la caduta di Tripoli, Mutassin catturato, non si capisce bene se vivo o morto e Seif, la spada dell’Islam, forse circondato o passato per le armi.
Il colonnello amava le divise «napoleoniche» e le buffonate, come l’adunata delle hostess a Roma per convertirle all’Islam. Però era pure capace di fermarsi per un tè nel deserto con Bruno Dalmasso, il custode del cimitero italiano di Tripoli, dopo aver cacciato oltre 20mila nostri connazionali dalla Libia.
Dopo la
fine nel sangue il colonnello verrà osannato dai suoi ultimi accoliti come un «martire». Sicuramente entrerà nella storia, come Mussolini o Ceausescu, ma la sua tragica fine ha chiuso per sempre 42 anni di genio e follia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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