È bello ritrovare Bufalino. Ora salviamo i dimenticati

Tre opere di Biamonti, Emanuelli e Spina giacciono nell'oblio. Recuperarle è un imperativo editoriale

È bello ritrovare Bufalino. Ora salviamo i dimenticati

Che meraviglia: Bompiani rimanda in orbita libraria Le menzogne della notte (pagg. 192, euro 13), il romanzo con cui Gesualdo Bufalino vinse lo Strega nel 1988. Bufalino trionfò con cento punti di scarto (159 lui, 58 il secondo) su Il braccio d'argento, dimenticato libro di Giuliana Berlinguer, regista, moglie di Giovanni Berlinguer, fratello minore di Enrico. Un tempo, al premio Strega premiavano anche i grandi libri; nella mia classifica personale spiccano Tempo di uccidere di Flaiano, Sessanta racconti di Buzzati, Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Ferito a morte di La Capria, Un altare per la madre di Camon e Il Natale del 1833 di Pomilio. Anche all'epoca come è ovvio, come sempre primeggiavano, in libreria, le stronzate; il fatto che le case editrici fossero guidate, per lo più, da chi leggeva i libri e non i libri contabili, arginava tuttavia l'assalto della mediocrità.

Le menzogne della notte è un libro bello perché improbabile, inattuale, imprevisto. La trama, ambientata in un malprecisato Ottocento, ha i torbidi della superbia: quattro personaggi, accusati di sedizione antimonarchica, rinchiusi in un'isola penitenziaria, raccontano, a turno, una storia in cui ciascuno «sia stato per avventura, o si sia creduto, o altri l'abbia creduto felice». Il libro, cupo incrocio tra gli arcani miraggi di Julien Gracq e I soliti sospetti, è fitto di frasi apodittiche, indimenticabili (spigolo tra i miei appunti: «L'inappetenza, si sa, è d'obbligo nelle serate d'addio»; «Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide»; «Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d'una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d'un prestigiatore nemico?»); è, anche, una metafora della letteratura. Lo scrittore, in fondo, non è che un condannato a morte reso moribondo dal proprio vampiresco talento che recita agli astanti la propria ultima menzogna.

Una sorta di miagolio gnostico conferisce al romanzo di Bufalino l'ennesima qualità insperata: riesce a farci sentire, idioti che siamo, intelligenti. Insomma, è il libro adatto per l'estate, opificio di umori, di involute voglie.

Tutto sommato, checché ne dica l'autore «Essere l'unico lettore di sé, che vizio da imperatori!»: nella viziosa sfilza di aforismi raccolti come Il malpensante Bufalino non teme cadute d'interesse; ben conficcato nel catalogo Bompiani, primeggia come autore di culto. Visto che il gioco ingolosisce la mente, alle Menzogne della notte affianco tre libri, diversamente dimenticati, di autori inattuali quanto Bufalino, scomparsi dalla cagnara editoriale da un po'. Prendete appunti, ne va della vostra effervescenza spirituale.

Come Bufalino, Francesco Biamonti esordì tardi, ultracinquantenne, con un romanzo di fatale bellezza, L'angelo di Avrigue. Bufalino pubblicò con Sellerio, sotto gli auspici di Sciascia; Biamonti per Einaudi, con la benedizione di Calvino. Non vinse mai lo Strega, Biamonti; per un paio di volte finì nella cinquina del Campiello. Certe asperità caratteriali, la reticenza antieroica di un ligure dal volto ligustro, gli impedirono di diventare un Bufalino. Einaudi lo ristampa con il contagocce, il suo romanzo più bello, Le parole la notte da dieci anni in esilio librario è un libro per rari lettori, pieno di silenzi, di vite che sconfinano nel nulla, con un candeliere di fraintesi; è un libro impossibile, di uomini che parlano con gli ulivi, nel vello della notte: «Vedi come si vive!, disse a un tronco. È mai possibile continuare? Beato il tuo sonno, padre del sogno».

Ogni tanto, qualcuno tenta di ripubblicare Enrico Emanuelli, giornalista di razza è stato inviato speciale per La Stampa e il Corriere della Sera e scrittore d'alto talento: nel 2021 Mondadori ci ha tentato con Settimana nera; l'eco scaturita è stata scarsissima. Il vero capolavoro di Emanuelli «il più bel libro di gran lunga il più bello, e molto bello in assoluto», secondo Guido Piovene s'intitola Curriculum mortis: pubblicato da Feltrinelli nel 1968, un anno dopo la morte dell'autore, giace da allora tra gli allori dell'oblio. Emanuelli ci ha lavorato per due lustri lo comincia nel '58, «a New York, sulla carta da lettera dell'hotel Lexington» , adottando una formula narrativa stroboscopica, che ricorda Fuoco pallido di Nabokov: le prime quaranta pagine rasentano il poema onirico («Ma allora che cosa ha detto a Sian, davanti al tempio di Budda obeso, lo scrutatore del destino osservando il mio naso, la bocca, gli occhi, le orecchie, gli zigomi, il mento?»); le restanti centoventi ne sono la chiosa, d'inquietante realismo; una gimkana di 41 note che ci portano dal «confine del Paranà» a Hiroshima, da una mostra di Dalí a Milano a un picaresco viaggio in Finlandia. La nota più bella è la 33; Marrakesh è sullo sfondo, crepita il crepuscolo: «Gli intermediari fra il giorno e la notte, coloro che concludono il tempo della luce e conducono i loro concittadini verso il tempo delle tenebre, spadroneggiano con antichi espedienti. Chi sono?».

In questa frugale rassegna di alieni della letteratura italiana, di letture imperiali perché contrarie al gusto imperante, la parte del gran visir va ad Alessandro Spina. Raffinatissimo industriale, siriano si chiamava Basili Khouzam transfuga dalla Libia di Gheddafi, Spina ha scritto alcuni dei racconti più belli della letteratura italiana recente. Amava Hugo von Hofmannsthal, credeva nel magistero di Alessandro Manzoni, i suoi libri pubblicati, negli anni, da Garzanti e da Rusconi, da Mondadori, da Scheiwiller e da Morcelliana sono letteralmente scomparsi dal contesto editoriale. Qualcosa resta ancora per i tenaci amici delle Edizioni Ares (L'oblìo, raccolta di «24 storie coloniali» uscita vent'anni fa). Conversazione in Piazza Sant'Anselmo, stampato da Libri Scheiwiller nel 1993, è il suo libro più potente, non tanto perché scritto in memoria di un'amicizia impari quella per Cristina Campo, di cui compone «un ritratto» ma perché testimone di un'indole e di una poetica; soprattutto, perché è scritto con uno stile regale, irriguardoso verso l'oggi, orientato agli assoluti. È un libro, secondo le intenzioni, fuori dal «pantano dell'attualità collettiva», che non fa nulla «per mettersi al passo col proprio tempo»; un libro di appuntamenti all'ombra, di opere coltivate con dedizione clandestina, certi che «è l'uomo che sceglie l'epoca, non l'epoca che imprigiona l'uomo» ed «è la scrittura che fa il tempo».

È, cioè, un manuale per refrattari alle mode, autenticamente reazionario; un atto d'accusa contro il provincialismo degli intellettuali italici piegati presso il trogolo del potente e del conveniente , contro i fastosi miti del progresso («prima di cancellare le civiltà altrui, la nostra civiltà divora se stessa: il mito dell'evoluzione è onnipossente»), alla ricerca di un «altrove, che è tutt'altro luogo, spesso segreto».

Un libro, d'altronde, può essere coltivato soltanto nel segreto, nelle segrete di sé, fino al disprezzo, a prezzare il proprio io pari a un paria. Scrivere è l'azzardo che ci azzera.

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