Il suo nome è conosciuto in tutto il mondo. Pino D’Angiò è un’icona pop degli anni Ottanta, non solo per la generazione di allora ma anche per la nuova. Dopo 7 tumori e lunghe terapie ha ripreso a esibirsi dal vivo, riempiendo teatri e club di ventenni. Quest'anno ha spento 71 candeline: “Una ragazzina a fine concerto mi ha detto: ‘Pino, perché non sei mio nonno?’ È la cosa più bella che mi abbiano detto in questo periodo”, racconta l'artista che quest'anno è ospite a Sanremo tra i big.
La sua Ma quale idea, nata nel 1980, è una canzone senza tempo. Ha scritto per Mina e guadagnato un Grammy con Don't call me baby. Oggi i suoi video fanno milioni di visualizzazioni e le sue canzoni milioni di ascolti sulle piattaforme di streaming. Solo Spotify ha registrato un milione e seicentomila ore da 181 Paesi, nei primi 10 mesi del 2023. Eppure il successo non è mai stato tra le cose più importanti. Dopo la prima diagnosi di tumore alle corde vocali si è chiesto perchè fosse successo proprio a lui e la stessa domanda se l'è posta quando è guarito. A novembre gli hanno tolto un polmone, ma commenta che tanto ne aveva due. Quando è tornato sul palco, la prima volta dopo la malattia, il club era pieno di ragazzi. “È stato un successo clamoroso – racconta – soprattutto in funzione della mia età. Cosa posso volere di più? Non pretendo un fico secco, se me ne devo andare, me ne vado”.
Una carriera in cui ha messo a segno ogni colpo. Il successo si può spiegare?
"Si chiama successo perché succede, non c'è altro da dire, dopo è facile trovare ragioni. È come la malattia, succede e poi i medici te la spiegano. Perché ho avuto successo? Forse perché ero diverso. Del resto, ho continuato a esserlo. Ho sempre fatto canzoni che fanno sorridere, roba piagnucolosa, del tipo 'ti amo, non lasciarmi', mai".
Sarà per questo che continuano ad attraversare generazioni?
"Ho ricominciato a fare spettacoli da tre anni e quello che mi ha sorpreso e commosso, anche per via di quello che mi è successo dal punto di vista clinico, è che mi sono trovato davanti a un pubblico di ragazzi tra i venti e i trent'anni. Su Instagram mi seguono migliaia di ragazzini, i video fanno milioni di visualizzazioni. Vedere un pubblico di ragazzi tra i 18 e i 30 anni è una cosa che non vede nessuno della mia età. Sì, mi sono commosso, Sentir dire da ventenni ‘grazie per la tua musica, grazie per quello che fai per la nostra generazione, noi ti vogliamo bene’. Un ragazzo mi ha detto ‘so chi sei e per questo ti vengo a sentire’".
Una ragazzina mi ha detto una cosa che potrebbe sembrare negativa, ma forse è stata la cosa più bella che mi sia stata detta in tutto questo periodo. A un certo punto, dopo il selfie di rito, ha detto: ‘Pino perché non sei mio nonno?’ L’ho trovata una cosa bellissima. Io me la sono letta così: quando si ha un’ammirazione per un personaggio pubblico si vuole stabilire un contatto, ma tra una ventenne e un settantenne è praticamente impossibile. Non si possono scambiare due chiacchiere, siamo mondi completamente diversi. Quindi per quella ragazzina, circa ventenne, l’unico modo per arrivare a un rapporto continuativo e desiderato era che io fossi suo nonno. Insomma, una figura paterna, familiare, non una roba da mille lire. A 70 anni, dopo una cura ospedaliera che non finiva un più, mi sono commosso. Anche perché io continuo a fare gli spettacoli per divertirmi, li faccio per vedere il sorriso delle persone. Questi non sono tempi dove si sorride facilmente e riuscire a far sorridere dei ragazzi per un’ora e mezzo per me è una cosa fantastica".
Che rapporto aveva con la salute prima?
“Fino ai quarant'anni mi sono sentito invincibile, verso i 50 mi sono sentito possibile. Dopodiché non si è capito più niente. Prima ho avuto un tumore al petto e i medici mi hanno detto ‘hai altri sei mesi e poi, grazie, e te ne vai’. Poi chissà com’è, non me ne sono andato. Dopo è partito il tumore alla gola. Prima della diagnosi ho iniziato a vivere le malattie più da vicino attraverso mio padre che si è ammalato di tumore polmonare. Un uomo vecchio stampo che scendeva le scale saltellando e tentava di giocare a tennis, arrabbiandosi se perdeva. Non mi aspettavo che all'improvviso fosse abbattuto, anche se continuava a preoccuparsi degli altri anche mentre se ne andava. Anche dopo essermi ammalato, giocavo a tennis con mia moglie e facevo le gare con mio figlio. Quando ti svegli allegro e felice, ti senti fuori dal campo del pericolo, ma così non è".
E dopo il cancro alla gola?
"Mi sono operato 6 volte per via delle recidive e poi è partito il tumore polmonare. Ho fatto radioterapia e chemioterapia. Nell’ultimo anno è ripartito un altro tumore polmonare. Mi hanno tolto un polmone, per fortuna ne ho due. Alla fine di qualcosa, prima o poi, dobbiamo morire. Ho già ricevuto tanti bonus. Ho pure ricevuto tanti soldi, senza neanche chiederli. Per cui, non posso pretendere di più di quello che ho già avuto fino ad adesso. Dopo le operazioni alla gola ero praticamente fuori dai giochi e non mi ero ritirato. Sono ritornato a fare questo lavoro ed è stato un successo clamoroso, soprattutto in funzione del fatto che io ho 70 anni e mi vengono a sentire persone di venti. Cosa posso volere di più? Non pretendo un fico secco, se me ne devo andare, me ne vado. Ho avuto la fortuna straordinaria di avere un figlio migliore di me. Non solo non mi ha mai dato preoccupazioni, ma si è fatto la sua strada in maniera straordinaria. Ho avuto una moglie che ha sopportato l'insopportabile sia quando ero giovane, sia quando ero malato. Lei è stata la moglie, l’amante, l’amica, l'infermiera e la badante. Stiamo insieme da 48 anni".
Il successo porta tante sfide e cambiamenti. Siete stati vicini pur cambiando?
"Lei è una persona che si fa carico dei mali del mondo, vorrebbe poter fare qualcosa anche quando non c’è niente da fare. È una specie di Santa Maria Goretti, ma essendo troppo ansiosa, durante la malattia, mi chiedeva continuante: "Come stai? Come stai?" Il punto è che se in quel momento non stai pensando alla malattia, lei te la ricorda (racconta sorridendo, ndr.). Ciò non toglie che nessuno avrebbe potuto fare di più di lei. Tutto quello che lei era capace di fare, lo ha fatto al massimo possibile".
Ha detto che è grato per quello che ha avuto, non ha più pretese. Il pubblico, però, continua ad averne.
"Io vengo da una specie di tirocinio che è durato circa undici anni. È stato un continuo: ‘Devi morire’. Poi invece non morivo. Dopo un po’, di nuovo: ‘Devi morire’. Io dicevo: ‘Ok’, ma poi: ‘No, ancora no’. E così così via tante altre volte e ancora non succede niente. Adesso basta però. Ogni volta mi hanno detto che non c’era niente da fare, ogni volta, per sette volte. Anche ultimamente me lo hanno detto tutte le analisi, le tac, le pec ecc. L’ultimo tumore polmonare non si poteva irradiare, perché la chemioterapia più di tante volte non si potrebbe fare e chirurgicamente non ero una persona operabile perché ho avuto un infarto.
Mi sono affidato: quel che succede, succede. Sono arrivato a un punto che non posso più preoccuparmi. Mi sono già preoccupato talmente tanto e son stato deluso dalle preoccupazioni, perché alla fine non sono mai morto (sorride, ndr.). Adesso quindi è tutto così ridicolo, ma è molto meglio così, è una cosa buona".
In questi undici anni ci sono state cose che hanno assunto un significato diverso?
“Le cose erano già significative prima. Ci sono due cose che detesto. La prima è quando mi dicono: ‘Stai combattendo il cancro’. Il cancro non si combatte, è un tragitto e si aspetta. Sono chiacchiere. Secondo me è una retorica da mille lire, anche molto negativa. Allo stesso modo, frasi come: ‘Ha avuto una lunga battaglia’. Io non ho fatto battaglie in nessun modo. Sono stato zitto ad aspettare, sperando che le cose andassero bene. Le confesso che ho avuto anche una grande faccia tosta a mio modo, era come se sapessi che sarebbero andate bene, ma più per senso di incoscienza. Non mi reputo una persona normale, ho sempre detto ‘andiamo avanti e poi vediamo se va bene’, così in tante cose. Mi ha sempre fatto ridere il mio lavoro ed è sempre stato un gioco. Io non ho mai lavorato in vita mia. Mi hanno pagato per fare delle cose che avrei pregato per poterle fare gratuitamente. Poter cantare, suonare, comporre era il mio sogno, sebbene non fosse nelle previsioni da universitario. Ero anche un ribelle, sono stato espulso dall’accademia militare per mancanza di rispetto verso i superiori, perché non accettavo che qualcuno mi potesse urlare in faccia, pensavo che nessuno avesse il diritto di farlo nei confronti di qualcuno. Ho avuto la grandissima fortuna di aver iniziato questo lavoro quando mi ero già formato e sapevo cosa fosse per me il bene e il male. Mio padre è stato attento a fare il padre in un momento in cui tutti dicevano che il padre doveva essere un amico e io ho applicato il suo esempio con mio figlio.
Io sono cambiato tanto, non sono lo stesso di quando avevo trent’anni o 50 anni, ma non è vero che si dà più valore alla vita e che capisci tante cose. Il giorno dopo la visita cosa è cambiato? Io ho continuato a dare valore alle cose che per me erano importanti, ad esempio il successo non era tra le cose importanti. Quando salgo sul palco, faccio l’artista, ma in realtà faccio me stesso: Pino D’Angiò, quello strafottente che si accende una sigaretta e ti fa quasi un favore quando canta.
Ai ragazzi non faccio prediche, però dico quello che penso. Un giorno ero seduto a fumare su una panca, fuori a un enorme centro commerciale. Accanto a me c’erano due ragazzini che accendevano una sigaretta dopo l’altra. Allora ho detto: ‘Scusate ragazzi, la sentite la mia voce?’ All'epoca era molto peggio di adesso. ‘Lo sapete perché? Perché ho fumato tutta la vita e mi hanno tagliato la gola. Lo so che vi sentite più grandi fumando, ma fa male, guardate me’. Uno dei due, avrà avuto forse 13 anni, mi ha detto: ‘Ma lei è un poeta’. Io ho pensato che forse nessuno gli aveva mai detto di non buttare via la vita. Nella sua inesperienza e senso di confusione di quell’età, avrà scambiato questa cosa per poesia. Io non sono poeta e non pretendo di esserlo, ma penso di riuscire a portare un messaggio ai ragazzi.
Chi l'avrebbe mai detto del successo iniziale e chi l’avrebbe mai detto del successo post operatorio. Però il desiderio umano non è poter stare male a lungo. Io mi sento compiuto. Non ho rimpianti. Ho visto cose che non avrei mai visto. Ho conosciuto persone che non avrei mai conosciuto e gente fantastica tra i ricoverati che non avrei incontrato se non avessi avuto tante volte il cancro".Ha conosciuto tante star internazionali, ma il valore l'ha riconosciuto anche tra le corsie degli ospedali.
"Lì non si mente più, si vede la gente così com’è. Il più grande complimento che mi è stato fatto è stato al di fuori del mio lavoro. Un giorno avevano ricoverato un vecchietto, che poi era un mio coetaneo di adesso, e non riusciva a farsi la barba. Mi sono offerto di aiutarlo, così mi son messo e ho fatto il barbiere. La moglie era una contadina molto semplice, vivevano in una zona agricola sperduta. Dopo un paio di ore, è venuta e mi ha detto: ‘Lei è una brava persona’. Questo era il massimo che mi potesse dire, mi ha riempito di orgoglio e mi sono sentito all'improvviso una brava persona. Certamente vorrei stare qui altri 10 anni, ma credo di non essere necessario. I cimiteri sono pieni di gente indispensabile".
Io invece credo che la sua testimonianza sia proprio indispensabile ed è il modo migliore per dialogare con le nuove generazioni. Se dovesse dare un messaggio anche pensando a lei da giovane, cosa direbbe ?
"Alle nuove generazioni non voglio dare un messaggio, ma vorrei che leggessero una poesia. Lo dico anche durante gli spettacoli a tutti i giovani che mi vengono a seguire. La poesia si chiama ‘Se’ ed è di Kipling. È stata la Bibbia della mia vita. Mio padre me la fece leggere quand'ero bambino e poi mi disse che se avessi voluto fargli un regalo per Natale, l’avrei potuta imparare a memoria, e io la imparai. Credo che molti l’abbiano letta, perché durante gli spettacoli ho invitato spesso a farlo.
Sentendo uno che fa il pagliaccio con la sigaretta e ti invita a leggere una poesia, magari la curiosità di vedere di che si tratta ti viene (racconta in tono scherzoso ndr.). Va letta quando si è soli, fino alla fine: “Sarai un uomo, figlio mio”. La poesia si riferisce al maschile, ma ovviamente vale per tutti, perché si rivolge all’essere umano".Leggi anche:
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