Berlioz e la nota stonata dei giorni romani

Un bel tipo davvero Hector Berlioz (1803-1869), spedito in Italia perché ha vinto un «Prix de Rome», e dunque è invitato a soggiornare, e a lavorare, a Villa Medici, a Roma: siamo nel febbraio del 1832, ma il 12 maggio già rivede, dalle alture del Moncenisio, la sua dolce Francia, avendo ottenuto dal direttore dell’Accademia, la «caserma accademica», come la chiama con disprezzo, di interrompere anzitempo il suo triste «esilio». Il racconto - ironico, stizzoso, ma per noi sommamente divertente - dei suoi mesi italiani entrò a far parte delle seicento pagine di memorie che il musicista redasse a partire dalla fine degli anni Quaranta; ed è divenuto ora il libro, in prima traduzione italiana, Viaggio musicale in Italia (FBE, pagg. 103, euro 9; a cura di Graziella Martina).
Divertente perché Berlioz, compreso della mitologia di sé che hanno simili personaggi, mostra grandi doti di narratore: che si fondano in primo luogo sull’ironia anche quando, forse, non è sua intenzione. Le pagine che spiegano la «tortura» del dover stare a Roma (non bastano, a ripagarlo, i «meravigliosi» scenari del Colosseo e di San Pietro), con il suo popolo greve, i rozzi costumi, l’assoluta mancanza di attitudine per la musica, sono esilaranti. In quell’«atmosfera antiarmonica» egli è quasi sul punto di rinunciare alla sua arte (e difatto scarsissima è la sua produzione in questo periodo). Perché se «l’arte strumentale è lettera morta per i romani», del pari essi «non hanno neanche un’idea di quello che chiamiamo una Sinfonia»; ma neppure la musica d’organo, i cori da chiesa gli stanno bene. Di Mozart poi «uno studioso, abate della cappella Sistina, ha detto un giorno a Mendelssohn che “gli avevano parlato di un giovane di grandi speranze di nome Mozart”». Ciò che si salva, a suo avviso, è l’espressione popolare: e tesse le lodi dei «pifferai» che, insieme agli zampognari, suonano per le vie di Roma la loro musica «selvaggia e mistica piena di originalità»; e, sempre per restare ai buoni selvaggi che in fondo Berlioz ritiene siano, tranne rare eccezioni, gli italiani, si entusiasma alle rozze ma potenti frasi musicali degli «Orfei di montagna», i pastori abruzzesi che cantano - anzi «gridano» - le serenate alle loro belle, in concerti in cui voce e strumenti appaiono del tutto slegati.
Insomma un terribile snob, la cui eleganza, però, accompagnata all’intelligenza del suo sguardo sulle cose, ce lo rende straordinariamente simpatico. La sua scrittura ha un che del visionario, soprattutto nelle descrizioni dei paesaggi attorno a Roma, dove andava a cercare, appena possibile, conforto all’invincibile spleen in cui la Città Eterna lo sprofondava; vi faceva lunghe gite solitarie a piedi, munito di fucile o di chitarra, a seconda che fosse dell’umore di cacciare o di comporre. Magari inseguito e fermato da sbirri zelanti che, sostiene, non appena saputo che era un francese, lo sospettavano di trame rivoluzionarie. E l’esposizione dei loro dialoghi, e dei dialoghi in genere, quando li riporta fedelmente, raggiunge punte di autentico surrealismo: «“Che cosa fate qui, Signore?”. “\ compongo, sogno, ringrazio Dio di aver fatto un sole e un mare così belli \”. “Non siete pittore?”. “No, Signore”. “Tuttavia, vi si vede dappertutto con un album in mano a disegnare. Siete forse occupato a tracciare dei piani?”. “Sì, traccio l’attacco del Re Lear \”. “Come l’attacco? Chi è questo Re Lear?”. “Ahimè, Signore, è un vecchio re d’Inghilterra”...». Così certe descrizioni di luoghi in abbandono, «conventi deserti con la chiesa spalancata», rifugio ormai di banditi, l’alto silenzio che vi regna, lo rimandano a un’altra Italia, quella cantata da Virgilio o da Dante, i cui versi gli capita di ripetere tra sé, insieme a quelli di Shakespeare, avendo appena assistito - delusissimo - a I Capuleti e i Montecchi di Bellini.

Per lo più lo fa, in un buffo guazzabuglio, durante i suoi attacchi acuti di malinconia (parla di «evaporazione del cuore»), rotolandosi disperato per terra e prima di cadere addormentato: «Nessun maggior dolore... che ricordarsi... oh, poor Ophelia!... Good night sweet ladies... vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras». Un teatro dell’assurdo da far invidia alle avanguardie.

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