Bruxelles - Quando vede spuntare le telecamere sceglie la linea morbida: «No, non c'è preoccupazione per la tenuta della nostra linea di politica estera, anche perché gode ancora di qualche credibilità una Italia che per cinque anni ha tenuto fede ai suoi impegni», osserva Silvio Berlusconi a chi gli chiede se, nell'appuntamento del Ppe prima del vertice europeo, si sia sentito qualcuno chiedere conto delle incertezze prodiane su Afghanistan e quant'altro. E aggiunge: «Cosa farei io se fossi ancora a palazzo Chigi? Non posso dirlo, non ho informazioni approfondite di chi è sul campo». Ma pochi attimi prima, davanti a un taccuino, il suo giudizio era in realtà risuonato un pizzico diverso. Certo, anche allora aveva chiarito che non gli risultava emergere una profonda diffidenza nei confronti della nostra politica estera, ma aveva anche tenuto ad aggiungere che se «Blair chiede un maggiore impegno degli alleati si vede che avrà dei buoni motivi per farlo, no?».
Anzi, per Berlusconi il premier britannico senza dubbio esplicita una «necessità palesata in loco», per cui tra gli alleati - in primo luogo l’Italia - non di ritiro di forze si dovrebbe rimasticare, ma semmai di incremento di mezzi e di uomini. Come pare abbiano consentito a fare la Germania e forse anche la Spagna.
Lei cosa farebbe?, gli si chiede. E lui: «Bisognerebbe conoscere bene lo stato delle cose, ma certo che i nostri soldati siano costretti al non intervento, a far da spettatori non è che mi paia del tutto corretto...».
Afghanistan: una spina che torna sempre più spesso all'attenzione del centro-destra. È su queste 11 lettere che è possibile si giochi del resto, magari a giorni, il futuro del governo Prodi.
Il maniero di Meise, una trentina di chilometri dalla capitale belga, dove il Partito popolare europeo è solito tenere i suoi appuntamenti di vertice prima dei summit dei capi di stato e di governo, certo non era il luogo deputato per discutere un tema che non divide il partito popolare europeo («Siamo tutti d'accordo nel voler impedire ai talebani di rimpadronirsi del paese. Né qui con noi c'era Blair, visto che è laburista e che dunque avrà sollevato la questione nella riunione dei socialisti...», scherza Berlusconi), ma di fatto è rientrato nel menù di giornata. Visto che Casini, sia nei colloqui bilaterali avuti con i colleghi di altri paesi che all'uscita dall’appuntamento, ha tenuto anche lui a intervenire sul tema, notando che il voto della Camera, a Roma, sul finanziamento della missione è stato un «ulteriore atto di responsabilità dell'opposizione» nei confronti di una maggioranza che perde pezzi su troppi temi ormai e che sulle missioni militari denota un accentuato malpancismo.
Berlusconi conviene. Insiste sul fatto che esiste una grande unità nel Ppe sulla difesa «della democrazia e della libertà» con cui cercare di contrastare il fondamentalismo islamico. E ritiene che su questo tema poco si possa discutere: «Non possiamo davvero nemmeno pensare - torna a ripetere - di lasciare l'Afghanistan permettendo ai talebani di tornare a dettare legge». Dice di non aver avuto bisogno di rassicurare gli alleati stranieri della tenuta italiana, della permanenza delle nostre truppe. Lo sapevano da prima del voto alla Camera che la missione sarebbe stata rifinanziata. Anche se adesso tocca al Senato dove le cose si fanno più difficili e dove Berlusconi non ha intenzione di concedere sconti: «Se non hanno 158 voti, devono essere coerenti - dice del governo - e salire al Quirinale.
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