nostro inviato a Bruxelles
No a Prodi, ma anche a Chiti o a qualunque altro improbabile nuovo tavolo si pensi di inventare e poi costruire. Per Silvio Berlusconi quello della legge elettorale da riscrivere resta «un falso problema» dato che la cosa si può risolvere con un paio di piccolissimi aggiustamenti e senza scomodare una revisione costituzionale. Esce dal castello di Meise il Cavaliere - là dove si è tenuto il summit dei Popolari prima dell'avvio del Consiglio europeo - e dopo qualche attimo di incertezza (parlare o non parlare?) eccolo a snocciolare la sua terapia per la governabilità del Paese senza doversi stare a inventare chissà quale nuovo sistema di voto.
«Primo, - enuncia - bisogna riportare a livello nazionale il premio di maggioranza in Senato che il capo dello Stato, a mio modo di vedere forzando la Costituzione, ci costrinse ad applicare a livello regionale, facendo sì che si precostituissero le condizioni del pareggio. Il secondo punto è quello di stabilire un
plafond, una soglia di sbarramento, davvero europea: il 4, 5 per cento almeno. Non dico di fare come la Turchia, che ha il 10%, ma 22 partiti da noi sono davvero troppi». Argomento chiuso? Macché. A Berlusconi la lingua batte dove il dente continua a dolere. Eccolo allora tornare sulla vexata quaestio della par condicio. «Ma vi pare che Forza Italia, che supera il 30% dei voti, possa avere lo stesso spazio di un Follini che rappresenta solo sé stesso?».
Tutto questo per far capire che lui, Silvio Berlusconi, le elezioni non solo continua a sognarle, ma le vuole proprio. Intanto perché gli è rimasta sul gozzo «quella notte di spogli e di brogli», ma poi - ancora e soprattutto - perché gli italiani sono ormai lancia in resta contro questo governo: «Abbiamo dai 10 ai 15 punti di vantaggio. Al momento mi dicono che il centrodestra è al 57%, mentre tutti i partiti del centrosinistra raggiungono a malapena il 42%». E ancora c'è il fatto che l'Unione non tiene, si sfalda giorno dopo giorno. È sempre alle prese con inciampi e imprevisti. Come sull'Afghanistan, dove il Cavaliere torna a dire: «Senza 158 voti in Senato la maggioranza sia almeno coerente. Salga di nuovo al Quirinale e a quel punto il capo dello Stato prenda la via più limpida: si torni a votare!».
Ma quel 57% è con o senza Casini, gli si chiede. Berlusconi fa un sorriso e ammette che comprende anche l'Udc, senza la quale comunque il centrodestra è al 52%. Ma lui giura che alla fine anche gli ex dc saranno al suo fianco. Chi li ha visti arrivare a Meise e scambiarsi un gelido «ciao» prima dell'appuntamento sembrava in realtà avere non poche perplessità sulle certezze berlusconiane. Ma poi un siparietto tra ex premier ed ex presidente della Camera (il secondo fugge vedendoselo arrivare alle spalle a grida «mi vuoi fare le corna!», il primo ribatte: «Ma no! Volevo accarezzarti») pare far tornare uno squarcio di sereno. Che aumenta all'annuncio che i due tornano assieme, sull'aereo del Cavaliere, a Roma. Due ore di faccia a faccia, da valutare nelle prossime settimane. Anche se Berlusconi è supertranquillo sull'esito della presunta querelle: «Intanto non conosco un solo elettore dell'Udc che non pensi di stare al nostro fianco nella Casa delle libertà». E poi su Casini lui continua a mettere la mano sul fuoco: «Non ho mai pensato, nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio, che potrebbe andare dall'altra parte» giura. Facendosi scappare che su Follini, invece, qualche dubbio l'aveva sfiorato. Su Pierferdy, niente del genere: «Non esiste», dice, del fatto che possa drizzare le sue vele a sinistra lasciando la compagnia. Neanche il fatto che il segretario dell'Udc, smessi i panni di presidente della Camera, si sia trasformato in una sorta di autostoppista (a Bruxelles lo ha portato D'Alema) pronto a qualsiasi imbarco, lo turba più di tanto. Vedrete, lascia capire, che alla fine tutti i problemi si risolveranno.
E la questione della leadership? Berlusconi ha la risposta pronta: «Temo di non essere fungibile... ».
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