«Il 25 Aprile, la festa di tutti gli italiani che amano la libertà e vogliono restare liberi, è l’occasione per riflettere sul passato ma anche sul presente e sul futuro. Se lavoreremo insieme a questo sentimento nazionale unitario avremo reso un grande servizio non a una parte politica, ma al popolo italiano e, soprattutto, ai nostri figli, che hanno il diritto di vivere in una democrazia finalmente pacificata»: con queste parole, due anni fa, Silvio Berlusconi celebrava a Onna la festa della Liberazione. Al collo, come i partigiani che gli stavano vicino, un fazzolettone tricolore. Nel quindicennio precedente il leader del centrodestra non aveva mai partecipato a una celebrazione ufficiale della Resistenza. I tempi sono maturi, disse allora Berlusconi, «perché la festa della Liberazione possa diventare la festa della Libertà, e possa togliere a questa ricorrenza il carattere di contrapposizione che ancora divide piuttosto che unire».
Ma come è possibile che una festa nazionale - anzi, la festa fondativa dell’Italia contemporanea - sia un elemento di divisione e persino di scontro? Nella Prima repubblica era soprattutto la sinistra a festeggiare il 25 Aprile, ma il Pci mai si sarebbe sognato di farne una festa di parte. Del resto, c’era già il Primo Maggio.
Il 25 Aprile che «divide piuttosto che unire» risale invece al 1994, un mese dopo il trionfo inaspettato di Forza Italia: quel giorno, sotto la pioggia battente di Milano, nasce ufficialmente l’antiberlusconismo. Una sinistra sorpresa e impaurita dalla vittoria di Berlusconi si appropria della festa della Liberazione per farne il proprio nucleo identitario e l’ultima trincea contro l’avanzata dei barbari. Il «nuovo antifascismo» ha un solo nemico: Berlusconi. Il quale, a sua volta, rifiuta di partecipare a qualsivoglia cerimonia pubblica optando per una messa privata nella cappella di Villa San Martino dedicata a «tutti i caduti della Seconda guerra mondiale». Gli risponde quello stesso giorno Eugenio Scalfari: «I riconciliatori vogliono trasformare il compleanno della libertà in una sorta di festa della mamma».
Da allora, e nonostante gli sforzi soprattutto di Ciampi e di Violante per costruire una memoria condivisa che, senza cancellare i torti e le ragioni della storia, riconosca anche il sacrificio di chi aveva combattuto dalla parte sbagliata, il 25 Aprile non è stata più la festa degli antifascisti contro i fascisti (del resto pressoché estinti), ma degli antiberlusconiani contro Berlusconi. Ne fece le spese Letizia Moratti, allora candidata del centrodestra a palazzo Marino, quando il 25 Aprile del 2006 partecipò alla manifestazione «antifascista» spingendo in carrozzella il padre Paolo Brichetto, ex deportato a Dachau: anziché cogliere l’importante novità e applaudire, la sinistra di piazza cacciò entrambi a fischi e insulti.
Nel 2009, dunque, la decisione di Berlusconi segna una vera e propria svolta politica e civile. «I comunisti e i cattolici, i socialisti e i liberali, gli azionisti e i monarchici - disse allora il presidente del Consiglio - di fronte a un dramma comune scrissero, ciascuno per la loro parte, una grande pagina della nostra storia. Una pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, sulla quale si fonda la nostra libertà». E oggi, proseguiva, ci sono le condizioni per guardare avanti e costruire finalmente un sentimento nazionale condiviso, non più (soltanto) antifascista, ma innervato da un più ampio, e storicamente giustificato, antitotalitarismo.
Il 26 aprile sera, il giorno dopo la celebrazione di Onna, Berlusconi è a Casoria, alla festa di compleanno di Noemi Letizia. La notizia uscirà qualche giorno dopo e innescherà uno tsunami mediatico, politico e infine giudiziario che appare tuttora ben lontano dall’esaurirsi. Dalla campagna di Repubblica al divorzio da Veronica Lario, dalla scissione di Fini al rinvio a giudizio su Ruby, tutto sembra discendere da quello sfortunato 26 aprile.
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