Nel 1947, Roberto Longhi, il più grande critico d'arte di quel tempo, scrive una seconda Officina ferrarese, dieci anni dopo: è il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, che è il modo in cui lui viene commentando le opere esposte da Rodolfo Pallucchini nella grande mostra a Venezia del 1946. Pallucchini ha tirato fuori dai depositi le opere, come La tempesta di Giorgione, che erano state protette con i sacchi, e nascoste a Sassocorvaro e altrove, per salvarle dalla violenza della guerra. Longhi nel suo libro dice cose bellissime su molti artisti Bellini, Rosalba Carriera, Canaletto, Bassano e cose bruttissime su Tintoretto e su Tiepolo. Ma il giudizio peggiore è per Canova: «E alla fine, tutto finito, non resta che Antonio Canova, lo scultore nato morto, la cui mano è all'Accademia, il cui cuore è ai Frari, e il resto non so dove». Un epitaffio. Ucciso Canova per sempre. In effetti la mano di Canova è all'Accademia, il cuore è ai Frari nel monumento suo , e il resto non sappiamo dove sia, sarà sepolto a Possagno. Ecco, quest'uomo è spezzato, distrutto come la sua gipsoteca. Che fare? Come mettersi contro Longhi? A quel tempo aveva già insegnato a Bologna e stava per andare a Firenze; era il più prestigioso critico d'arte, amato dai giovani, ed era stato vicino anche alle avanguardie futuriste. Il fascismo aveva guardato alla rivalutazione del mondo classico con un'attenzione forse convenzionale, ma senza discussione, anche per Canova. Ora la tempesta improvvisa,peggio delle bombe: Canova viene ucciso da Longhi.
Dieci anni dopo questa stroncatura, nel 1957, si celebra il centenario della nascita di Canova, nato nel 1757, con una mostra ai Musei Civici di Treviso. La mostra è concepita sotto lo spettro di Longhi, tra fantasmi e maledizioni, e il direttore Luigi Coletti deve trovare una soluzione. Che troverà impaginando una mostra di fotografie. Solo fotografie, non le opere.
La mostra era costituita di fotografie di marmi prevalentemente e di gessi, fatte dallo studio del fotografo Fini, ed esposte nel Salone dei Trecento. Era un modo per riassumere come in un sussidiario l'arte di Canova senza spostare il fondo di Possagno, senza poter far arrivare marmi dai vari luoghi del mondo, dall'Inghilterra, dalla Russia, da Roma, rappresentando però compiutamente la sua opera. L'allestimento fa una certa tenerezza. Siamo nel 1957. Ci sono le tende, queste grandi fotografie, e poi piantine per terra da salotto borghese.
È singolare, perché se c'è un autore che è adatto ai fotografi questo è Canova, che trova la quasi inevitabile continuazione della sua visione così ferma. La fotografia rende immobile l'immagine e la ferma come in una condizione di morte. Se vediamo una fotografia mia di trent'anni fa sono un altro. Lo diceva Leonardo Cremonini: la pittura rappresenta la vita, vedi gli Impressionisti, vedi Bellini, Venere, vedi un pittore del Cinquecento, vedi Tiziano. È viva, quella Venere. La fotografia immobilizza il tempo e lo ferma in un momento che è quello. L'ultimo,rigoroso, è stato Mimmo Jodice, che ha ritratto le forme con un atteggiamento molto solenne e abbastanza funerario. L'ultimissimo ,appassionato, è Fabio Zonta, che ha stabilito una fonte sola di luce, creando una possibilità di lettura attraverso la fotografia che insiste su un fatto: anche se tu fai una foto a colori di Canova, risulta in bianco e nero. Il bianco e nero è il colore di Canova. Prima di lui Paolo Marton inventò qualcosa quasi di psichedelico, delle strane luci rosa, viola, che sono anticanoviane ma che in qualche modo lo attualizzano. E poi, le foto tormentate di Luigi Spins ,e le foto di Aurelio Amendola, grande fotografo di Michelangelo che io ho voluto applicare alle sculture di Canova.
Coletti, nel discorso pronunciato allora, ma non pubblicato, all'inaugurazione del 15 settembre del 1957, ora raccolto e trascritto da Fabrizio Malachin, fa riferimento al precedente momento celebrativo, il primo, quello del 1922, all'inizio del fascismo. Non era in discussione la grandezza di Canova, anzi funzionava abbastanza con il fascismo, quindi quella celebrazione, di cui non so lo sviluppo espositivo, dovette andare bene. Il secondo andò male perché, tra il 1922 e il 1957, c'era stata la ghigliottina longhiana. E Coletti dice: «Sono passati trentacinque anni da quando fu celebrato il primo centenario della morte di Antonio Canova con solenni manifestazioni». Siamo nel 1922, cioè esattamente cento anni fa, con le celebrazioni del primo centenario della morte. Il secondo centenario della nascita è invece quello dell'imbarazzo. Qui comincia l'ansia, la malinconia. Quest'uomo elegante, nel suo doppiopetto, che non sa cosa fare e non sa cosa dire e ha davanti il giudizio severissimo, mortale, crudele, sadico, cinico, di Longhi. «E tuttavia il centenario odierno cade in un momento che vorrei dire di inquietudine critica, lo scultore nato morto, per una recente sentenza sommaria, più che di condanna di scherno, ciò che forse è anche peggio, di apprezzante disinteressamento. Giudizio che potremmo anche fingere di ignorare se non fosse pronunciato da uno studioso che non è solo uno dei critici più geniali e più quotati, ma anche uno dei direttori di gusto più ascoltati oggi, specialmente dai giovani. Giudizio che non ripeto perché altri già hanno risposto con autorità. Vi ha risposto indirettamente la Bassi». Elena Bassi era una studiosa veneta, più corretta di Longhi, molto tradizionale, legata alle ricerche d'archivio e alla pubblicazione di cose inedite. «Vi ha risposto il Lavagnino», altro studioso importante, «nel mettere così vigorosamente in rilievo la figura del maestro. Vi ha risposto soprattutto apertamente il Fallani, nel suo libro chiaro, con una coscienza tranquilla, con il titolo di un capitolo: Lo scultore nato vivo». Certo, era il modo per rispondere allo scultore nato morto. Il gioco di parole su cui si scontrano due posizioni. «Eppure quella voce che certo non si può spendere col solo entusiasmo apologetico», cioè la voce di Longhi, «ci punge e ci inquieta onde, quasi turbati nella fede, cerchiamo il solito fondamento di un razionabile obsequium, non temendo di porci la domanda: fu vera gloria?». Quindi nel 1957 stavano per dire «ma chi è questo Canova?». «Fu vera gloria? Il problema è ancora aperto. Non attendetevi da me pertanto un panegirico di circostanza, ma un tentativo di riesame critico, un'indagine quanto più è possibile serena e obiettiva della quale troverete le prove nella mostra che tra poco visiteremo»,precisa il Coletti.
È questo il momento in cui comincia il riscatto canoviano, cioè quella fortuna critica che ha portato, tornando ancora indietro, al 1911, la prima storica monografia di Vittorio Malamani, una monografia importante, solenne, un po' retorica, che comunque dava a Canova il rilievo di un grande artista antico; poi, nel 1922, alle prime celebrazioni. Nel 1946 c'è stato Longhi, nel 1957 la mostra trevigiana, e poi si arriva alla seconda metà del secolo scorso con una serie di avanzamenti molto significativi. Mario Praz fu il primo a studiare non soltanto Canova ma anche il gusto neoclassico e ad aprire un'interpretazione moderna tutta favorevole a Canova, contro Longhi. Lo accompagnò un grande studioso, seppur più teoretico che conoscitore, Giulio Carlo Argan, il quale ebbe l'intuizione di indicare, cioè che la modernità di Canova è nell'aver inventato una forma, un'idea che poi si può moltiplicare all'infinito, ovvero l'inizio del design appunto. E poi altri studiosi, fra i quali Ottorino Stefani, sulla scorta di Argan, tentarono un salvataggio dell'artista dal giudizio negativo, dividendo fra le opere fredde, quelle in marmo, le opere finite, distanti ma sublimi, legate a una visione ideale, e invece le terrecotte, di esecuzione molto più veloce e immediata, e in cui si sentiva la poesia. Quindi le terrecotte, i bozzetti, sono il primo viatico, il primo modo per rispondere a Longhi e per restituire l'idea della vita, la naturalezza, la capacità di far vibrare la materia, di Canova. È una via d'uscita, ma di lì a poco anche questo compromesso, questo tentativo di salvare il salvabile, di indicare dove Canova ha una creatività istintiva, cioè l'istinto e non lo studio, e di riferire alla attività degli allievi le opere che lui finisce ma che sono in qualche modo riproducibili, viene superato da alcuni studiosi, soprattutto non italiani, come Hugh Honour, che scrivono di Canova a tutto tondo, senza contrapposizioni, con grande attenzione e rispetto, tutto quello che oggi è il punto di riferimento di una storiografia che gli ha restituito gloria e onore. Fino a due studiosi che, su posizioni diverse, continuano e consacrano in tempi attuali la grandezza di Canova: Giuseppe Pavanello, pieno d'impegno, anche partecipando all'edizione degli scritti di Canova, e Fernando Mazzocca, altro canoviano illustre. Oggi il suo allievo, Francesco Leone, ha pubblicato l'ultima e completa monografia su Canova per Officina Libraria.
Si può dire che negli ultimi anni la critica abbia voltato le spalle a Longhi e la storiografia lo abbia riconsacrato.
Dopo Honour tutti gli studiosi, a partire da Elena Bassi, danno a Canova il più alto grido. E così la vicenda finisce. È nata in maniera un po' drammatica, e oggi, con le celebrazioni del 2022, si chiude questa apoteosi di riscatto dall'onta longhiana. Abbiamo salvato Canova.
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