Il cronista del Giornale che Egidio Sterpa, il caporedattore di Milano, aveva incaricato di istruirmi al mestiere quando, alla fine del 1978, mi fu affidato l'incarico di corrispondente della provincia, si chiamava Beppe Gualazzini. Mi raccontava molte storie degli anni di piombo. Si era in particolare appassionato al sequestro di Carlo Saronio, un giovane di buonissima famiglia milanese che era entrato in Potere Operaio per uscirne poco dopo, e che era stato rapito nel 1975 da alcuni ex compagni che miravano a chiedere un riscatto al facoltoso padre. Gualazzini si diceva certo che Saronio fosse morto da tempo, e aveva ragione, perché nel 1979 sarebbe poi stato rinvenuto il cadavere.
Perché ricordo Gualazzini? Perché era il sosia di Giangiacomo Feltrinelli, e la storia dei sosia ricorre, nella memoria di quegli anni, in modo quasi divertente, ammesso che ci si possa divertire a parlare di morti ammazzati.
Un sosia di Pietro Valpreda, ad esempio, era Nino Sottosanti, uno strano soggetto che non si capiva se fosse un anarchico diventato fascista o un fascista diventato anarchico. Fatto sta che a lungo è rimasto il dubbio che sul taxi del povero Cornelio Rolandi, il pomeriggio del 12 dicembre 1969, non fosse salito Valpreda ma un suo sosia che aveva la funzione di incastrare gli anarchici. Sottosanti, appunto, o forse qualcun altro perché pare di sosia la vicenda di piazza Fontana sia zeppa. Dicono che assomigliasse a Valpreda come una goccia d'acqua anche tale Claudio Orsi, ferrarese, nipote di Italo Balbo e amico di Franco Freda. Un bel casino insomma.
Mai avrei immaginato, però, che in questo casino sarei finito pure io, anche se fortunatamente solo per poche ore.
All'inizio del 1990 seguivo, come cronista del Corriere della Sera, il processo per l'omicidio del commissario Calabresi. Veniva celebrato nell'aula grande della Corte d'Assise, al piano rialzato del palazzo di giustizia di via Freguglia a Milano. Dei quattro imputati, tutti di Lotta Continua, solo Leonardo Marino - il pentito che aveva confessato ben sedici anni dopo i fatti - era detenuto, e quindi chiuso in gabbia. Gli altri tre - Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi - erano seduti mescolati fra gli avvocati, i giornalisti e un'altra dozzina di ex compagni di Lotta Continua imputati di rapina; più varia umanità di curiosi che s'era intrufolata.
Venne il turno dei testimoni oculari, cioè di coloro che il 17 maggio del 1972 erano in via Cherubini quando ammazzarono Calabresi. Furono letti i verbali delle deposizioni date all'epoca alla polizia; poi i testi vennero interrogati, e tutti dissero di non poter ricordare bene, a distanza di tanti anni. Ne erano ormai passati quasi venti.
Anzi tutti dissero di non poter ricordare bene tranne uno. Un tale Gnappi, il quale si presentò puntuto. «Vidi benissimo l'assassino», assicurò. «Fui a faccia a faccia con lui e tentai di fermarlo e assicurarlo alla giustizia», aggiunse. Ostentava tanta e tale sicurezza che, alla fine della sua deposizione, il presidente della Corte d'Assise, Manlio Minale, gli chiese: «Ma lei sarebbe in grado di riconoscere, fra i presenti nell'aula, l'assassino di Calabresi?»; visto che Ovidio Bompressi, l'uomo accusato di avere sparato, era proprio lì, mescolato insieme agli altri.
Il teste Gnappi si girò verso di noi, roteò gli occhi più volte a destra e a manca, in alto e in basso, e a un certo punto si fissò su di me. Mi guardò e riguardò a lungo. Stava quasi per indicarmi, poi esitò. Minale gli disse che poteva andare e lui, un metro prima di uscire dall'aula, si girò nuovamente verso di me, mi guardò e poi scosse il capo come dicesse: non sono sicuro. Il giorno dopo, sul manifesto, uscì un articolo in cui si diceva che il teste Gnappi aveva indicato un giornalista del Corriere che all'epoca del delitto Calabresi aveva tredici anni e un alibi di ferro: quella mattina era a scuola.
Anni dopo, a processo ormai chiuso con sentenza definitiva, quindi confermata dalla Cassazione, il teste Gnappi si ripresentò aggiungendo altri particolari. Riferì di aver ricevuto, nei giorni successivi al delitto, la visita di strani individui che gli avevano mostrato alcune fotografie, chiedendogli se riconoscesse, fra quei volti, i killer del commissario. Erano forse uomini dei servizi segreti, quei misteriosi visitatori di casa Gnappi? Su quelle nuove rivelazioni venne accettata dalla Corte d'appello di Venezia l'istanza di revisione del processo. Che si concluse con la conferma delle condanne per tutti e quattro gli imputati.
Lotta Continua, all'epoca del processo già disciolta da un pezzo, non era stato che uno dei tanti movimenti dell'estrema sinistra di quegli anni: formidabili secondo Capanna, miserabili secondo altri punti di vista. C'erano anche il Movimento Studentesco e i Comitati Unitari di Base, dei quali s'è detto; poi Avanguardia Operaia, in genere studenti universitari; Servire il Popolo, che era nato dalla trasformazione dell'Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) nel Partito Comunista (marxista-leninista) italiano, e non saprei francamente spiegare le differenze; poi Autonomia Operaia, il cui leader era Toni Negri; e quindi Potere Operaio. Composto perlopiù dai figli dell'aristocrazia e dell'alta borghesia romana, Potere Operaio aveva un problema: non c'era, tra i suoi militanti, un operaio che fosse uno. O meglio. A Milano pare che ce ne fosse uno: che veniva esibito nei salotti intellettuali come una madonna pellegrina. Tra di loro, tutti questi gruppi non andavano granché d'accordo. Anzi. Quelli di Servire il Popolo venivano sfottuti dai concorrenti, che li chiamavano Servire il Pollo. Quanto a quelli di Lotta Continua, erano presi per i fondelli per il loro presunto temporeggiare e nei cortei, sulle notte di Camminando sotto la pioggia del Trio Lescano, si cantava: «Noi siamo quelli di ellecì/ Lotta Continua sì / facciam rivoluzione lunedì». Tutti gli extraparlamentari si trovavano però d'accordo nell'essere contro il Pci. Berlinguer era considerato parte del sistema da abbattere. «Il piccì non è qui/ lecca il culo alla diccì», cantavano tutti insieme sfilando per le vie delle città.
Un altro slogan di gran voga in quegli anni stava a dire che anche «il privato è politico». L'ideologia si infilava ovunque. Anche in camera da letto, o meglio sui sedili delle R4, delle Due Cavalli e delle Dyane. Erano i tempi della «coppia aperta», perché la relazione monogamica era un retaggio borghese. Il testo sacro era Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, il cui incipit era testualmente così: «Cazzo. Cazzo cazzo cazzo. Figa. Fregna ciorgna. Figapelosa, bella calda, tutta puzzarella. Figa di puttanella».
Un pomeriggio Caterina, la ragazza che mi aveva portato in quell'aula studenti piena di armi, venne a trovarmi a casa. Non avevamo ancora concluso nulla e io ero timidissimo. «Tu mi piaci», mi disse, «e io mi metterei anche con te. Ma in questa fase è importante dare un segnale politico. Quindi mi metterò con la Donatella, perché dobbiamo far capire che le donne possono fare anche da sole, non hanno per forza bisogno di un maschio». Il giorno dopo, Caterina e Donatella si baciarono davanti a tutti, all'uscita di scuola, per dare il segnale politico: «Col dito/ col dito/ l'orgasmo è garantito».
Altri segnali politici, ben più cruenti, continuavano in tutto il Paese. Il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia a Brescia, scoppiò una bomba durante un comizio indetto dai sindacati. Otto morti e 102 feriti.
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