Bonomi, scolpire il dolore tra essenza ed esistenza

Mai tragico, antiretorico, per nulla «populista» raffigurò sempre la sofferenza dell'essere umano

Bonomi, scolpire il dolore tra essenza ed esistenza

Tra i grandi scultori del Novecento vi è Carlo Bonomi (1880-1961), la cui integrità formale è pressoché unica. Essa trova il perfetto equilibrio tra pittura e scultura, con la stessa continuità ideale che aveva affermato Michelangelo. «Io dico che la pittura mi pare più tenuta buona, quanto più va verso il rilievo, et il rilievo più tenuto cattivo, quanto più va verso la pittura... Ora, poi che io ò letto nel vostro Libretto, dove dite, che, parlando filosoficamente, quelle cose che ànno un medesimo fine, sono una medesima cosa; sono mutato d'oppinione: e dico, che se maggiore iudicio e difficultà, impedimento e fatica non fa maggiore nobiltà; che la pittura e la scultura è la medesima cosa: e perché ella fussi tenuta così, non doverebbe ogni pittore far manco di scultura che di pittura; e 'l simile, lo scultore di pittura che di scultura. io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura: basta, che venendo l'una e l'altra da una medesima intelligenza, cioè scultura e pittura, si può far fare loro una buona pace insieme».

Per molte ragioni e, soprattutto, mutatis mutandis, per identità di ispirazione, è la stessa condizione di Carlo Bonomi, che si muove nelle due discipline con eguale impegno. Aveva frequentato l'accademia di Brera dal 1898 al 1904, poi, con Pio Solero, si era trasferito a Monaco studiando all'Accademia tra il 1905 e il 1907. I suoi esordi sono sotto l'influenza del simbolismo di Segantini e di Pellizza da Volpedo, in una interpretazione sobria e plastica. L'archetipo sembra essere nella Sinfonia pastorale; e già qui, in pittura, si vede il Bonomi scultore che, nello stesso 1915, concepirà l'opera più amata: La madre. Al perfezionamento di questa invenzione Bonomi lavorerà fino al 1925, correggendola ancora nel 1948. In essa c'è una prefigurazione dei tempi, in piena avanguardia, come se fosse nata già nello spirito di «Novecento», il movimento della Sarfatti, che accolse l'opera nel 1926. Nello stesso anno La madre è esposta alla mostra di Dresda ed è acquistata dal governo tedesco per essere collocata nel Palazzo dei ministeri a Berlino.

Nel 1928, invitato alla seconda mostra di «Novecento», Bonomi espone ancora l'opera, la cui potentissima sintesi e forza emotiva sembrano indicare una ponderata influenza della più alta espressione della scultura italiana, quella di Adolfo Wildt, e della verità popolare di Käthe Kollwitz. Il punto di congiunzione è impeccabile, e fu rilevato criticamente dal più sensibile studioso della scultura del Novecento, Mario De Micheli, che a Bonomi dedica pagine di lucidissima interpretazione critica. Prima di lui, già nell'ottobre del 1931, era entrato nell'anima di Bonomi Enrico Emanuelli, in pagine di straordinaria precisione sulle quali oggi si modellano le nostre: «Fra gli artisti più singolari della nostra epoca, un posto tra i primi spetta decisamente a Carlo Bonomi. Il suo nome non ricorre sovente tra gli espositori di questa o di quella mostra e pare persino che egli sia un ignorato. Ignorato si intende dalla gran massa, che accetta quello che altri offre senza distinguere e valutare... Mai ho visto rapporti così stretti, profondi e sinceri, come in questo caso: dove l'uomo e la sua opera stanno uniti in comunione ideale. Verrà un giorno che si parlerà del caso Bonomi». Un'altra intuizione di Emanuelli è la constatazione da cui siamo partiti: «non si può scindere lo studio di Bonomi pittore, da quello di Bonomi scultore: i legami sono così evidenti che quasi si potrebbero adoperare le stesse parole per l'uno e per l'altro». Emanuelli osserva anche la sobrietà, la compostezza, i volumi compatti che esprimono forza, e conclude: «il suo dolore non è mai tragico o sconvolto; le sue figure, per rendere palese il tormento interno, non sono mai atteggiate a drammatiche pose».

Sommamente anti retorico, mai populista, Bonomi sente forte il legame tra l'umano e il cristiano. La sua maternità è una reinterpretazione della Madonna con il bambino. La sua formidabile Contadina del 1928 esprime un pathos religioso, ma mai devozionale. Il Trasporto di Cristo nel cimitero monumentale di Milano e nel cimitero di Turbigo non è diverso dal Trasporto del partigiano del 1944, un grande olio su tavola di più di due metri per cinque, in cui il pathos non cede ad alcuna retorica, con una potenza cupa e drammatica che è come quella di un compianto corale in cui sentiamo gli echi del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, di Ensor, di Nolde, di Permeke e di Sironi. Il dolore, il compianto raggiungono la più alta tensione drammatica grazie al monocromo.

Il pittore l'aveva già sperimentato nell'altro dipinto di questo ideale ciclo, in cui dimensione religiosa e dimensione civile convivono, e si sovrappongono. Mi riferisco ai Prigionieri di Mauthausen del 1922-23, che sono immaginati come crocifissi, rimandando alla iconografia sacra. La sovrapposizione è evidente, l'emozione identica, in nome dell'umano. Il più notevole precedente non è novecentesco ma è nel Seicento lombardo, non lontano dai luoghi di Bonomi. Penso al Martirio dei beati francescani a Nagasaki di Tanzio da Varallo, con l'affollarsi delle croci. È probabile che Bonomi lo conoscesse, e ne ha restituito il dramma e l'emozione in una maniera cupa, infernale, nebbiosa. Il Cristo di Bonomi rivela la sua natura divina nell'essere uomo, e la sua passione non è diversa da quella dei prigionieri, dei caduti, dei morti in guerra. Quella è la sofferenza.

Bonomi durante la guerra era stato al fronte, in Cadore e sul Monte Grappa, e aveva visto morire i soldati. I suoi disegni rappresentano le ritirate di Caporetto, le tristi marce dei profughi, i famigliari dei caduti, tra desolazione e miseria. Dice bene De Micheli: «Tutto ciò è rimasto indelebile nella sua memoria e nei suoi sentimenti. Ed è di qui che attinge la sua carica di persuasione una scultura, appunto come il Trasporto del Cristo. È infatti un dramma popolare quello che egli rappresenta in questa opera. Bisogna andare indietro fino agli operai che portano in salvo il compagno ferito del grande rilievo del Vela, per trovare un'opera altrettanto ricca di motivi plastici ed espressivi». La grandezza e l'universalità di Bonomi stanno in questo, senza sbavature (lo si vede bene nei gessi conservati nella Selvaggia, il suo studio «lavorerio» a Turbigo. Nessuno scultore, tra Wildt e Marino Marini, è riuscito ad essere così puro, in una misura compiuta al limite dell'astrazione. È sempre De Micheli ad averne colto la dimensione nella religione dell'uomo: «la religiosità di Bonomi era di natura laicale, concentrata sui valori umani dell'esistenza.

Il Cristo potrebbe benissimo essere un soldato caduto portato via dopo la battaglia da un compagno, dalla madre e dalla sposa, come accadeva un tempo nelle guerre di popolo; o potrebbe essere un minatore morto portato a casa dai famigliari».

Bonomi è uno scultore assoluto, nel quale essenza ed esistenza coincidono.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica