Raccogliendo in volume una serie di lavori di Gianfranco Miglio (Scritti politici, con una prefazione di Giuseppe Valditara, edito da Pagine, pagg. 230, euro 18) per lo più risalenti agli anni Novanta, Luigi Marco Bassani ci obbliga a fare i conti con riflessioni di grande attualità, che confermano l'originalità di pensiero di uno scienziato della politica del quale non è stata ancora riconosciuta appieno la statura.
Appaiono profetiche, ad esempio, talune considerazioni sul rapporto tra le società di tradizione europea e il mondo mediorientale. Per Miglio era evidente come al fondo di tanti conflitti vi siano questioni politico-religiose, perché egli riteneva che non si possa capire quell'universo senza fare riferimento al fallimento storico delle società musulmane, rimaste estranee ai processi di modernizzazione e per questo perennemente frustrate e in cerca di una rivincita.
Già un quarto di secolo fa, insomma, egli aveva inteso come la struttura concettuale del mondo islamico fosse destinata a entrare in contrasto con la diplomazia internazionale, con l'economia degli scambi, con la stessa convivenza tra popoli. Egli intuì pure come all'interno dell'Occidente la galassia arabo-musulmana potesse contare su quanti detestano la società capitalistica e quindi anche su parti significative del mondo ecclesiastico.
Tutto questo perché l'Occidente, a giudizio di Miglio, da tempo ha avviato una dissoluzione dei miti su cui aveva costruito le sue cattedrali istituzionali e in particolare lo Stato moderno: tale evoluzione, però, non è facilmente accettata e mette pure in crisi una serie di gerarchie, poteri, parassitismi. La diagnosi migliana sull'evoluzione delle società europee era comunque chiara: i rapporti basati sul comando (imperativi) andavano declinando, lasciando il posto a relazioni volontarie. Le sue tesi sul federalismo muovevano proprio dalla consapevolezza che non ci fosse futuro per ordini autoritari, ormai fuori dal tempo e delegittimati, e che solo accordi volontari potessero garantire una cornice giuridico-politica stabile e accettata. Se nell'Ottocento era dominante la mistica nazionalistica e nel secolo successivo tutti si erano nutriti di ideologie totalizzanti, dopo la Seconda guerra mondiale il pendolo della storia aveva iniziato a spostarsi verso l'individuo, il mercato, il contratto.
Leggendo Miglio si capisce perché nel 2014 in Scozia hanno votato, trasformando il Regno Unito in un'unione volontaria di comunità, e si comprende pure cosa ci sia dietro la Brexit: che ha riportato sulla terra istituzioni che pretendevano di trascendere gli uomini e le loro esistenze.
L'antologia, che oltre al Miglio neofederalista degli anni Novanta include anche alcuni brani «classici» (dalla prolusione del 1964 che irritò Giulio Andreotti fino al testo del 1975 evocante la necessità di una regione padana), mostra come le libertà occidentali subiscano minacce dall'esterno (l'islamismo) e anche dall'interno, dato che l'establishment mostra un attaccamento irriducibile al potere. Quando all'indomani della Brexit alcuni esponenti politici (da Giorgio Napolitano a Mario Monti) hanno rilevato con soddisfazione che per fortuna in Italia non è possibile votare su quasi nulla, è apparso chiaro come la nostra società sia prigioniera di un fondamentalismo statuale e paradossale, in ragione di cui taluni si sentono autorizzati a fare qualunque cosa perché investiti dal popolo, ma sono pure ben determinati a impedirgli di esprimersi.
Molto del fascino del libro sta nel fatto che lo sguardo di Miglio non è quello di un cronista o di un militante, impigliato in logiche di breve durata. A lui interessavano le trasformazioni epocali e a più riprese emerge come egli avesse chiaro che i regimi liberaldemocratici avevano provvisoriamente rafforzato lo Stato (ponendo le basi per politiche assistenziali), per poi però dissolvere la nozione stessa di sovranità. Quando si mette ai voti un mito venerato (si tratti del Regno Unito come del progetto degli Stati Uniti d'Europa) è chiaro che ogni sacralità è ormai venuta meno.
Per Miglio, la dissoluzione del potere criminale racchiuso negli Stati (che negli ultimi due secoli hanno ucciso, imprigionato e spogliato dei propri beni un numero impressionante di vittime innocenti) sarebbe venuta dalla fine delle unità politiche: come scrive Bassani nell'introduzione, oggi il federalismo rappresenta la «riorganizzazione delle forze centripete che mettono in discussione il dogma dell'unità».
Le ultime pagine si soffermano proprio sull'universo delle città libere, che egli contrappone a quello degli Stati nazionali in declino, ma la sua enfasi sulle realtà locali non è mai riconducibile a una sorta di micro-nazionalismo.
Il suo obiettivo, semmai, è rovesciare la logica dello Stato, marginalizzare la coercizione, spazzare via welfare e ridistribuzione. Aprire la strada, insomma, a ordini politici destituiti di ogni aura e posti al servizio di chi li finanzia.
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