La storia che sto per raccontare abbisogna di una piccola premessa. Da anni mi vado occupando, con altre persone, di dare un volto narrativo ai cambiamenti radicali che in questi anni riguardano le nostre città e il nostro paesaggio. Come molti sapranno, il primo risultato di questo lavoro è il libro Milano è una cozza, di cui si è molto parlato in questi mesi. Ma il lavoro continua, nuovi libri si stanno già preparando.
Se dovessi dire qual è la natura di questo cambiamento, direi che è di ordine biopolitico: in questi anni, cioè, si sta affermando il principio secondo cui un dato territorio deve essere completamente pianificabile. Ora, l’Italia è piena di oggetti non pianificati, di luoghi strani che raccontano storie sconosciute, di terre di nessuno: tutto questo, dice il Nuovo Codice per una Corretta Consapevolezza Territoriale, non deve esistere più. Un filone di cui si occupa il mio lavoro si potrebbe rubricare sotto il titolo «ruderi della modernità». Già nel primo libro si parla di un multisala costruito nel 2002 e oggi abbandonato alle ortiche. Nel prossimo si parlerà - grazie all’ottimo lavoro di un giovane studente (dico per correttezza il suo nome, Daniele Redaelli) - di Consonno. Incuriosito, ho voluto anch’io raggiungere questo paese-fantasma, questo spettro di un sogno violento (come spesso sono i sogni quando li si vuol realizzare) e bizzarro.
Consonno si trova su un colle, circondata da altri colli, tra Milano e Lecco. Per raggiungerla bisogna partire da Olginate, a sud di Lecco, sul lago omonimo, e salire per diversi chilometri a zig-zag. Da un certo punto in avanti bisogna andare a piedi, tra i boschi. La strada, man mano che si procede, diventa sempre più disagevole, e si comincia a respirare un’aria di abbandono.
Al termine della salita un’arcata quasi del tutto arrugginita porta in rilievo queste parole: «Consonno è il paese più piccolo e più bello del mondo». Altre arcate ci ricordano che chi vive a Consonno campa di più, o che a Consonno è sempre festa. Slogan ingenui, figli di un’età in cui le strategie di marketing erano molto rudimentali. Del paesino agricolo che fu Consonno prima dell’8 gennaio 1962 resta poco. I ruderi che ci circondano, qui, appartengono a templi greci, a cannoni rinascimentali, a porte e merlature medioevali. Abbondano le colonne, e c’è perfino una moschea, che era in realtà una specie di centro commerciale: perché il sogno del conte Mario Bagno - che aveva acquistato l’intero paese - era quello di realizzare, qui, una specie di Las Vegas brianzola, capace di offrire agli arricchiti del boom tutte le sfrenatezze cui il nuovo status economico dava loro diritto.
Qui trovavi casinò, sale giochi, sale da ballo, diversi hotel tra cui il lussuoso Plaza. Ce n’è un altro, meno lussuoso, che somiglia a un’astronave appena atterrata, ma c’è da dubitare che i visitatori alieni abbiano trovato qui quello che cercavano. I lavori di costruzione durarono cinque anni, e la Consonno dei sogni briantei fu pronta, ironia del destino, nel 1968, anno con cui, simbolicamente, si suole datare la fine del boom e l’inizio di un’altra epoca, ben più difficile e oscura.
Fra le sterpaglie e i resti di una fontana inaridita immagino come doveva essere questo posto all’epoca d’oro. Gli ospiti affollavano hotel, ristoranti, negozi, incuranti se il fiume della storia, nel frattempo, compiva un’ansa improvvisa lasciandoli fuori: a loro bastavano i soldi, come gli ospiti del principe Prospero del racconto di Poe La maschera della morte rossa, che se la godono incuranti della terribile epidemia che infuria nelle città e nelle campagne.
Ma anche qui, come nel racconto romantico, giunge infine la nemesi. I troppi lavori di modifica del territorio e di cementificazione determinano una crisi geologica che, nel 1976, provoca una grossa frana. La via d’accesso al bengodi viene seppellita per un lungo tratto, e il conte Bagno capisce che la festa è finita: correggere gli sbagli riassestando un terreno ormai pericolante costerebbe troppo. Così Consonno viene abbandonata al suo destino. Delle varie strutture solo il Plaza continua a funzionare, trasformato in ricovero per anziani. Consonno diventa per qualche tempo - ne restano le tracce - un bivacco per vagabondi e un luogo di spaccio e consumo di droga. Vi si organizzano feste clandestine e rave party. Durante uno di questi, il «Summer Alliance», nel 2002, il Plaza viene danneggiato al punto che il ricovero è costretto a chiudere. Da questo momento, Consonno è, ufficialmente, un rudere, un reperto archeologico.
Tre cose restano nella mia memoria per diversi giorni dopo questa visita. La prima è la finta moschea. Oggi i fedeli musulmani si assiepano per la preghiera in capannoni, magazzini, impianti sportivi, trasformando queste cose in moschee, mentre uno dei pochissimi edifici inequivocabilmente a forma di moschea fu eretto quando in Italia esistevano ben pochi musulmani, e in ogni caso è un centro commerciale. La seconda è una tomba solitaria, nascosta tra i cespugli vicino alla via d’accesso. Sulla tomba si erge una croce, sulla quale leggiamo soltanto un nome, Gilardi Giuseppe, e io, non so perché, davanti a questa morte solitaria mi metto a piangere come se in quella tomba ci fosse mio padre. Forse è così, alla fine di una giornata strana, che avverrà per noi tutti l’incontro con la morte. La terza è una scritta a spray sull’asfalto: «Qui si celebra la stupidità umana», e io la trovo commovente quasi quanto la croce. Ha ragione l’ignoto autore: una visita qui ha qualcosa di rituale.
A Consonno si capisce come va a finire. Per questo, fossi uno dei responsabili della nuova pianificazione territoriale, ci penserei due volte prima di mandare le ruspe.
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