Burri come Caravaggio spiega i dolori della Sicilia

Il cretto dell'artista umbro è un "seppellimento". Come quello che il Merisi dipinse per Santa Lucia

Burri come Caravaggio spiega i dolori della Sicilia

Parlare a Gibellina, nel Grande Cretto di Burri, di Caravaggio, non è uno spettacolo, ma un atto critico. L'esperienza di Caravaggio in Sicilia fu importante. E ne restano quattro testimonianze fondamentali. Una delle quali leggendaria, affidata alla memoria del non visto. La fortuna critica di Caravaggio, iniziata nel 1951, era ancora acerba nel 1969 quando, con una preveggenza criminale, alcuni ragazzi di borgata, forse indirizzati da qualcuno, tagliarono con una lametta, ai margini della cornice, la Natività sull'altare dell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Il più ricercato dei dipinti, il latitante della grande pittura, il Matteo Messina Denaro delle opere d'arte, non è mai stato recuperato, ma io non mi sono rassegnato al fatto che sia stato distrutto.

Nella criminalità c'è violenza ma intelligenza. Il furto della Natività ha contribuito alla fama di Caravaggio, proiettandolo in un alone di mitologia e di rimpianto. La sottrazione avvenne al momento giusto. Uno di quelli che l'aveva vista con maggiore penetrazione, Roberto Longhi, sarebbe morto un anno dopo. La sua monografia era lo strumento più illuminante fino a quel momento, e soltanto dopo il 1969 uscirono gli studi di Maurizio Marini, Maurizio Calvesi, Mina Gregori, Mia Cinotti, Ferdinando Bologna, mentre la notorietà del pittore cresceva fino al parossismo. Nel 1969 stava per essere commesso un altro delitto, cui non si è mai posta riparazione, pur essendo possibile. Un'opera fino a quel momento sconosciuta, la Negazione di Pietro, della Collezione Arditi di Castelvetere di Napoli, fu illegalmente esportata, non senza la complicità dello stesso Longhi e, dopo anni di peregrinazioni, fu misteriosamente donata al Metropolitan Museum di New York, senza alcuna utile azione di obbligatorio recupero dell'attivissimo Nucleo Tutela dei Carabinieri. Ci sono tutti i documenti e le testimonianze della sottrazione del dipinto all'Italia.

Non mi sono mai capacitato di questa renitenza del Nucleo Tutela, più volte da me sollecitato, fino dai tempi del compianto e capacissimo generale Roberto Conforti. Ho visto i carabinieri appassionarsi a falsi Cascella, falsi Brindisi, falsi Schifano, falsi De Dominicis, in gran parte originali modesti, ma sequestrati con formidabile determinazione. Caravaggio, lì sfrontatamente esposto, nel primo museo degli Stati Uniti, niente. Sono certo che recupereremo prima la Natività di Palermo della Negazione di Pietro. Il giallo del dipinto rubato è una delle tante storie criminali che circondano Caravaggio. Il turismo culturale era molto arretrato in quegli anni, e il percorso caravaggesco non contemplava Palermo fra le tappe inevitabili. I criminali conoscevano il dipinto più delle autorità. Quanto poteva valere sul mercato quel dipinto nel 1969? Cinquecento milioni di lire. Oggi varrebbe 500 milioni di dollari. Quei ragazzi non erano fessi, e tanto meno quelli che hanno ricettato il dipinto. Da quel momento comincia la storia mafiosa, con mille depistaggi e false informazioni. Io sono assolutamente certo che il dipinto ci sia ancora. Diversamente da quello di New York, di facile recupero, è la balena bianca dei ricercatori di opere rubate. Il capitano Achab, trascinato da Moby Dick negli abissi, urla: «in nome dell'odio che provo, sputo su di te il mio ultimo respiro». Dal 1969 tutti gli studiosi che hanno creato la leggenda di Caravaggio, all'infuori della Gregori, sono morti. La ricerca continua.

In Sicilia, prima di andarsene per sempre, Caravaggio ha lasciato altre tre opere. Due sono a Messina, Resurrezione di Lazzaro e un'altra, notturna, dolorosa Natività. Ma il suo dipinto capitale, il mio stabile pensiero, sul quale nessuna modernità si afferma, è il Seppellimento di Santa Lucia di Siracusa. In quel quadro c'è tutto il male del mondo. Il martirio della santa è poco. La violenza del suo seppellimento, la prevalenza della crudeltà, l'annichilimento delle anime gentili, superano ogni limite. Il fondo scuro, macchiato, indefinito, delle latomie, è il non luogo di un mondo dopo la sua fine. Il corpo straziato della santa è la violenza e lo strazio di ogni crimine, di ogni ucciso, di ogni morto senza senso, nella guerra, nel terremoto.

Nel dipinto tutto è detto. Ed era stato subito capito, nella tragedia di quell'isola descritta da Tomasi di Lampedusa. La presenza di Caravaggio a Siracusa è attestata in anni precoci da Vincenzo Mirabella (1613), che dà conto della sua visita in compagnia dell'artista presso le latomie, mentre la fonte primaria sul Seppellimento di santa Lucia è Giovan Pietro Bellori (1672): «Pervenuto in Siracusa, fece il quadro per la Chiesa di Santa Lucia, che stà fuori alla Marina: dipinse la Santa morta col Vescovo, che la benedice; e vi sono due che scavano la terra con la pala per sepelirla». Il racconto più dettagliato è comunque quello di Francesco Susinno, nelle Vite, del 1724: «fuggì in Sicilia, e ricovratosi nella città di Siracusa fu ivi accolto dall'amico suo e collega nello studio di pittura, Mario Minnitti pittore siracusano, da cui ricevette tutta la compitezza che poté farle la civiltà di un tal galantuomo. Lo stesso supplicò quel senato della città acciò impiegasse il Caravaggio in qualche lavoro, e così potesse aver campo di godere per qualche tempo l'amico ed altresì osservarsi a qual grado di altezza erasi portato Michelagnolo, mentre se ne udiva grande il rumore e ch'egli fosse in Italia il primo dipintore... Oggi giorno ammirasi nella chiesa de' Padri Riformati di S. Francesco, dedicata alla stessa gloriosa santa, fuori le mura della medesima città. In questa gran tela il dipintore fece il cadavere della martire disteso in terra, mentre il vescovo con il popolo viene per sepellirlo e due facchini, figure principali dell'opera, una di una parte ed una dall'altra, con pale in azzione che fanno un fosso acciò in esso lo collochino. Riuscì di tal gradimento questa gran tela che comunemente vien celebrata... L'inquietissimo cervello di Michelagnolo, amando vagare pel mondo, lasciò gli agi della casa dell'amico Minnitti. Portossi alla città di Messina».

Un anno prima del furto della Natività di Palermo, ai mali della Sicilia si era aggiunto il terremoto del Belice. E Caravaggio ritorna. Quel fondo indefinito delle latomie, anche inconsapevolmente, viene re-immaginato in una definizione vasta, nel paese di Gibellina, da Alberto Burri che, sulle macerie, distende un sudario, con l'effetto di un mondo inanimato, disabitato. Arrivato sul luogo perduto, Burri ricorda: «Andammo a Gibellina con l'architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest'avvenimento».

Alla fine un altro seppellimento. Il seppellimento di una città. Per questo siamo qua, a Gibellina. Per un atto critico. Per trovare la presenza, l'attualità di Caravaggio nel grande Cretto di Burri. Una storia che non finisce. Un tempo che non finisce.

E qui, con due grandi stranieri, Caravaggio e Burri, che hanno interpretato la tragedia di Sicilia, il giusto controcanto sono le parole di Tomasi di Lampedusa: «Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti». Questo viviamo. Questo sentiamo. Qui, oggi.

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