Bush: «Atto di giustizia che lui negava agli altri»

da Washington

George Bush dormiva il sonno del giusto - o almeno questa è la versione ufficiale - nel momento in cui la «giustizia» ha presentato a Saddam Hussein il cartellino rosso che negli usi iracheni ha una funzione simile a quella dell’analogo pezzo di carta sui campi europei di calcio: solo che l’espulsione per lui non è stata dal campo di gioco ma dalla vita. A Washington erano passate da poco le 10 di sera, che erano però le 9 per il ranch texano dove il presidente era andato a passare le feste. Ad ogni modo, addormentato o no, Bush era stato informato su tutta l’operazione imminente a Bagdad, compreso il dettaglio che le guardie americane avrebbero consegnato il condannato proprio all’ultimissimo momento per evitare tentativi di liberarlo.
Tutto è andato, una volta tanto in Irak, secondo il programma, e così il presidente Usa ha potuto riassumere, il mattino dopo, il suo giudizio. Ha espresso la sua soddisfazione. Ha definito l’impiccagione di Saddam Hussein «un atto di giustizia del genere che il dittatore negava alle sue vittime al tempo del suo regime». «Un processo equo come questo era inimmaginabile sotto il tiranno. Che esso sia stato ora possibile è una tappa importante nel cammino dell’Irak verso la democrazia e la costruzione di una società governata dalle leggi». L’esecuzione, ha detto ancora Bush, è avvenuta «alla fine di un anno difficile per il popolo iracheno e per le nostre truppe. Fare giustizia di Saddam non porrà fine alle violenze in Irak, ma è una pietra miliare importante nel percorso che quel Paese ha imboccato per diventare una democrazia capace di governarsi, stare in piedi da sola, difendersi da sola e diventare un nostro alleato nella guerra al terrore», nonostante persista il problema delle violenze settarie che Bush, quasi solo in questo, ancora si rifiuta di definire guerra civile.
Poche ore dopo la fine di Saddam sulla forca, quattro auto suicide sono esplose in una zona sciita uccidendo 72 civili: un atto di vendetta per la «pulizia etnica» di cui i sunniti sono oggetto in quella che fino a poco tempo fa era una società mista. Nelle stesse ore in tre diverse imboscate sono morti altri soldati americani, portando il totale dei caduti nel mese di dicembre al livello più alto degli ultimi due anni e il loro totale a 2.998, due solamente al di sotto della soglia simbolica dei tremila. Bush ha reso omaggio una volta di più ai caduti, sottolineando che «senza l’impegno e il sacrificio continuato dei nostri uomini e donne in uniforme non sarebbero stati possibili i progressi che l’Irak ha compiuto. Ci attendono scelte difficili e ulteriori sacrifici, ma che la democrazia continui a consolidarsi in Irak è essenziale per la sicurezza del popolo americano».
Una conclusione che nessuno dei sempre più numerosi critici della politica di Bush in Irak ha osato contraddire. Perfino il senatore Kennedy, uno dei più accaniti avversari della linea Bush in politica estera, ha salutato la fine di un «brutale tiranno e dittatore assassino». Il suo collega Joseph Biden, che tra pochi giorni diventerà presidente della Commissione senatoriale per gli Affari esteri, ha salutato la «chiusura di uno dei capitoli più neri della storia dell’Irak e i più brutali tiranni nel mondo intero». Più puntuale e significativo il giudizio del senatore Barack Obama, che fin dall’inizio votò contro la guerra e che è fra i più quotati aspiranti alla candidatura democratica alla presidenza nel 2008. Egli ha constatato che «gli iracheni hanno trovato giustizia nella morte di Saddam Hussein». Il che è certamente vero per la maggioranza, anche se non basta a rendere meno impopolare la presenza americana.
Il dibattito politico negli Usa riprenderà fra pochi giorni, dopo aver «doppiato» la morte di Saddam Hussein, il funerale dell’ex presidente Gerald Ford e il Capodanno. La nuova maggioranza democratica prepara battaglia in Congresso, e inevitabilmente l’Irak sarà il primo degli argomenti. Per il suo passato ma soprattutto per il suo futuro.

L’opinione prevalente a Washington è che l’ombra di Saddam non sarà molto lunga, che egli sia «un dettaglio importante del passato più che del futuro del suo Paese». La sua uccisione potrà tutt’al più approfondire i sentimenti di rancore e odio fra le varie comunità che già esistevano sotto la sua dittatura e che sono traboccati con il crollo dello Stato dopo la sua deposizione.

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