Bush e l’America ricordano in silenzio l’11 settembre

Giornata di raccoglimento che il presidente americano ha interrotto solo per dire: "Troveremo Bin Laden". A New York la cerimonia non si è tenuta a Ground Zero

Bush e l’America  ricordano in silenzio l’11 settembre
Washington - Il sesto anniversario dell’attacco del terrorismo al cuore dell’America, l’America lo ha ricordato soprattutto col silenzio. Minuti di silenzio scanditi sul cronometro, uno per ogni impatto degli aerei-bomba contro le Torri di Manhattan, uno per ogni crollo delle Torri; a scandire una cerimonia che a New York è stata diversa dal solito, anche perché ha traslocato: non si è svolta a Ground Zero, ma nel non lontano parco Zuccotti. Motivi di sicurezza, perché sul luogo della strage sorgono ora i cantieri della ricostruzione (però l’ultima Torre è caduta un paio di settimane fa), ma anche una scelta del sindaco Bloomberg, perché «New York vuole superare il lutto dell’11 settembre, voltare pagina e andare avanti».

Nel parco tra un silenzio e l’altro hanno rullato tamburi e suonato cornamuse. Nessun discorso. Bush ha partecipato a un rito nella cattedrale episcopale di Washington ed è comparso allo scadere dell’ora nel parco della Casa Bianca assieme al vicepresidente Cheney. Ha parlato il ministro della Difesa, Robert Gates in una cerimonia al Pentagono, l’altro obiettivo colpito dai terroristi pochi minuti dopo le Torri di Manhattan.

In totale l’assalto ha fatto 2.993 morti, inclusi i 19 attentatori suicidi. E il volto di uno tra costoro è comparso per la prima volta, sui video via internet, presentato ed elogiato da colui che non ha taciuto l’11 settembre 2007: Osama Bin Laden. Ancora con la barba tinta, con la fisionomia incerta del suo discorso di quattro giorni prima, alternandosi con le immagini di una Torre in fiamme e affiancato da quella di Walid al-Shehri, un componente del team di dirottatori che mandò un aereo dell’American Airlines contro la Torre Nord, il primo obiettivo nel World Trade Center. Shehri era saudita, come Bin Laden e come 14 dei 19 attentatori. Nessuno veniva dall’Afghanistan né dall’Irak. E ieri le uniche parole che Bush ha pronunciato, riferisce il portavoce della Casa Bianca, sono state rivolte contro Osama: «Lo troveremo».

Un elemento in più del puzzle della Guerra al Terrore, che ha determinato da allora l’intera politica estera degli Stati Uniti, non solo degli Stati Uniti e non solo estera. Una guerra che continua, per ora in Afghanistan e in Irak, e potrebbe forse estendersi a breve scadenza.

Intrecciate come sono con una campagna elettorale Usa partita con straordinario anticipo, le vicende belliche in Irak sono state in realtà al centro anche nel Giorno della memoria, al Congresso di Washington è continuato l’«interrogatorio» dell’ambasciatore americano a Bagdad Ryan Crocker e soprattutto del responsabile militare David Petraeus, che sono stati presi di mira, nella seconda giornata della loro testimonianza, dai senatori democratici, e in particolare dal presidente della commissione Esteri, Joe Biden.

Uno «scambio» vivace anche se non feroce come quello del giorno prima alla Camera. Petraeus ha ribadito i punti essenziali della posizione sua e di Bush: la Surge ha successo, i 30mila uomini di rinforzo saranno - tranne nel caso di brutte novità per ora impreviste - inviati tra il settembre 2007 e il luglio 2008. Il resto del contingente Usa rimarrà in Irak a tempo indeterminato e la sua missione non si trasformerà come da molti viene suggerito, in un ausilio alle forze armate irachene: gli americani resteranno in prima linea. Byden ha risposto con un argomento altrettanto tradizionale: la strategia americana non potrà avere successo se non si arriverà a una riconciliazione fra le etnie e le sette dell’Irak. «Ciò non sta accadendo. Il popolo americano non tollererà una guerra all’infinito il cui solo obiettivo è ormai impedire che la situazione peggiori ancora. È il momento di girare l’angolo».
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