Tra Bush e Messico ancora troppe nuvole

da Washington

Tutto è bene quel che finisce bene, anche il turbinoso viaggio di George Bush in America Latina. Saggiamente, il presidente Usa si era riservata per ultima la sosta in Messico, che del resto era una delle più importanti e nel momento di concludere il suo periplo, così, i suoi colloqui con i vicini meridionali terminano su una nota se non di accordo almeno di dialogo sereno e scambio di intenzioni costruttive. A proposito, naturalmente, del più direttamente bilaterale tra i problemi in agenda: l’immigrazione. Nella prima giornata di colloqui, che si sono svolti a Merida, nello Yucatan, Bush ha promesso al collega Calderon (uno dei pochi capi di Stato conservatori e in complesso filoamericani eletti negli ultimi anni in America Latina) che farà tutto il possibile per indurre il Congresso a modificare la legislazione vigente, soprattutto negli aspetti che i messicani considerano offensivi: in tutto quello, insomma, che riguarda il «muro anti immigranti» che sta sorgendo in gran parte del confine fra i due Paesi. Come già in alcune altre occasioni durante questo viaggio, l’uomo della Casa Bianca ha sottolineato la comprensione e l’impegno degli Stati Uniti per i problemi concreti di vari Paesi dell’America Latina, la «condizione umana» di quella parte del mondo. Il suo interlocutore ha ribadito che il Messico rispetta la piena sovranità degli Stati Uniti sul loro territorio ma che «la costruzione di una barriera non è una soluzione».
I colloqui erano cominciati su una nota di una certa tensione a causa di un incidente accaduto immediatamente prima che Bush mettesse piede sul suolo messicano: l’iniziativa di agenti della guardia di frontiera Usa che sarebbero penetrati per qualche metro in territorio messicano per spegnere un incendio nella boscaglia. La più innocente delle azioni, che ha però indotto il governo messicano a mandare a Washington una dura nota di protesta: «Anche in situazioni di emergenza, dobbiamo essere avvertiti immediatamente, senza alcuna eccezione». Un pretesto, probabilmente, per far partire Calderon col piede giusto nei suoi colloqui con l’ospite. Ma anche la conferma che nei rapporti fra i due Paesi continua ad esserci tensione. Il motivo di fondo sono le leggi sull’immigrazione passate dal Congresso in gran parte per iniziativa di senatori e deputati del partito di Bush contro il parere della Casa Bianca. Ne deriva la frustrazione di molti messicani, che rende più difficile il compito che il neopresidente Calderon si è probabilmente posto: quello di diventare il contraltare nell’America Latina della demagogia seminata a piene mani dal venezuelano Chavez. Calderon sa bene che una linea di collaborazione con gli Stati Uniti è nell’interesse del suo Paese ma esita a mostrarlo troppo apertamente perché si tratta di una posizione attualmente impopolare.

Lo dimostrano gli ultimi sondaggi condotti in Messico: la maggioranza definisce ora «soprattutto negativo» il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. È una febbre ricorrente nella storia, che vede oggi una reviviscenza e che richiede «medicine» a lungo termine.

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