Washington - «Non stiamo vincendo». Parola di George Bush, primizia assoluta in bocca a lui. «Ma non stiamo neppure perdendo», ha aggiunto il presidente attutendo la definizione data il giorno prima dall’ex segretario di Stato Colin Powell: «Stiamo perdendo ma non abbiamo perso». Entrambi parlano della guerra in Irak, ma Bush ribadisce che questo è solo uno dei teatri di combattimento, un capitolo di una guerra destinata a durare a lungo, decisiva per i destini dell’America e del mondo. Di conseguenza il capo della Casa Bianca ha annunciato di voler aumentare gli effettivi delle forze armate americane, nel loro complesso e non necessariamente per essere usate a Bagdad. Per un conflitto globale, una risposta globale. Un programma impegnativo, che Bush ha enunciato con qualche anticipo sull’appuntamento preso per gennaio, in una conferenza stampa e in una intervista alla Washington Post.
In Irak, dunque, «non stiamo vincendo, non stiamo perdendo» e non c’è nessun piano, e tanto meno una tabella nel tempo, per il ritiro delle truppe Usa. Che tuttavia sono sottoposte dal conflitto a un durissimo stress (Powell, ex comandante in capo, aveva parlato di «schiena spaccata») e pertanto vanno rinforzate, strutturalmente e non a breve termine. La formula è allo studio del capo del Pentagono, Robert Gates (ieri in Irak per incontrare i comandanti Usa), compreso il carico finanziario, che verrebbe ad aggiungersi alle spese che si accumulano per i conflitti in Irak e in Afghanistan: 70 miliardi di dollari in più sono già stati stanziati, altri 100 i miliardi richiesti. Ma non dovrebbero esserci grossi problemi col Congresso a maggioranza democratica, perché proprio da quella parte politica sono venute richieste in questo senso, a cominciare dalla campagna elettorale presidenziale di John Kerry.
Quello che Bush ha voluto precisare è che si deve agire attraverso un rafforzamento strutturale, che consentirebbe maggiore elasticità anche nel caso in cui si rendesse necessario, o fosse ritenuto utile, spedire rinforzi in Irak. C’erano state dalla Casa Bianca indicazioni di un invio di 20 o 25mila uomini a breve termine, ma per il momento non sono state prese decisioni, anche perché l’idea ha sollevato obiezioni di carattere militare e politico. Il generale John Abizaid, comandante delle forze Usa nell’intero Medio Oriente, si è mostrato scettico: certo più soldati sul posto potrebbero portare una maggiore sicurezza, ma d’altro canto potrebbero dare agli iracheni la scusa per rinviare il momento di prendere in mano poteri e responsabilità. Inoltre, ha detto Abizaid, le truppe straniere «sono una tossina che gli iracheni prima o poi dovranno espellere dal loro organismo».
Nessuna decisione precipitata, dunque. Neppure sul piano delle iniziative diplomatiche. Bush non ha neppure accennato alla conferenza con la partecipazione della Siria e dell’Iran proposta nei giorni scorsi dal «gruppo di studio» bipartitico presieduto dall’ex segretario di Stato Baker. Nessun accenno anche alla suggerita necessità di un maggiore coinvolgimento di Washington in Palestina. Il «nuovo corso» annunciato da Bush è strategico, globale. Si preparano tempi duri, che «richiederanno scelte difficili e ulteriori sacrifici» dal popolo americano, ma quello che è in gioco sono i destini del Paese e del mondo. L’Irak non è una guerra in sé ma solo il campo di battaglia di una «guerra ideologica che durerà ancora. Per questo abbiamo bisogno di maggior forza militare. Perché è impensabile che l’America venga sconfitta e buttata fuori dal Medio Oriente a causa della crisi irachena. Un nostro fallimento laggiù esporrebbe una generazione di giovani americani a una minaccia esterna permanente. Sarebbe una calamità incombente sulla nostra nazione che minerebbe la nostra credibilità e metterebbe a rischio l’America per decenni. Per questo non possiamo permetterci di non vincere.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.