Spalanca la porta con un colpo secco e spariglia il tavolo senza gingillarsi. Fascicoli e cartacce vanno tutti premuti negli scatoloni, ché qui si levano le tende. Una pletora scodinzolante ne contempla la risolutezza. Perché Achille Lauro è un uomo imperioso, convinto dei suoi mezzi e anche all’opposto, dotato dei mezzi per convincerti. Ha appena sibilato ai ragionieri del Napoli che quella sede lì è un dispendioso ammennicolo. Vengano, piuttosto, a lavorarsi le carte bollate in quell’ufficietto angusto premuto nella pancia della sua compagnia armatoriale.
Perché Lauro questo fa: l’armatore. Ha appena intinto le sue mani grosse e callose in una commessa mondiale. Si occuperà lui della rotta che congiunge il paese all’Africa orientale italiana. Strizzare l’occhio al regime, a seconda del tempismo selezionato, può farti detonare la carriera. E oggi, che è un promettente giorno di marzo del 1936, il comandante ha il vento in poppa.
Sarebbe anche spassoso per quei modi da principiante dittatore, se non fosse che taglia i rifornimenti a decine di impiegati, derubricati in fretta al ruolo di inutile chincaglieria. Licenziati: arrivederci e grazie. Ma mica solo loro. Appena messo piede nella sede sociale caccia pure l’allenatore ungherese, Willy Garbutt. Incede solenne tra le stanze della Napoli calcistica e continua a sfrondare, come un giardiniere cinico. Letterina di commiato imbustata anche per tutti i giocatori più facinorosi. A quel che resta della squadra distribuisce lo stipendio in anticipo, per direzionarne i sentimenti. Taglia e unge con consumata disinvoltura.
Però la prima stagione è un flop. Più che ad uno di quei panfili laureschi avvezzi a solcare mari recalcitranti, gli azzurri assomigliano ad una goletta spompa, mai accarezzata dal vento. Il piccolo cabotaggio non si addice alle ambizioni debordanti dell’uomo solo al comando. Achille contempla quella creatura malandata con sussiego, poi si decide a far tintinnare la moneta.
Arriva una nutrita ciurma di calcianti, tra cui anche un certo Nereo Rocco, possente mezz’ala prelevata dalla Triestina. Spendere e sbraitare però non basta. Lauro si mastica giocatori e allenatori soppesandone le gesta direttamente da bordo campo. Il clima di irritazione è evidente. Entra a gamba tesa nella gestione tecnica, come se si trattasse dei conti del club. Insulta, addita, reprime. Le sue intemerate diventano epiche. Si sente la Cassazione del calcio, ma lascia in giro frattaglie come mine. Quando finalmente si avvede che le cose non funzionano, che il suo Napoli non è riuscito a compiere il grande salto, lascia la guida del club.
Corre l’obbligo di rendergli giustizia per quel che concerne la gestione dei conti: con lui al timone non esiste mezza sbavatura. Appena sbatte la porta, il club collassa di nuovo. Al male si aggiunge il peggio quando inizia a spargersi la voce che il Napoli non paga più. Poi arriva la guerra, che copre con il suo orrido manto ogni cosa.
Quello di Lauro però era stato un arrivederci. Un uomo della sua statura è riluttante al fallimento. Torna ad indossare le vesti del presidente perché sa, in fondo, che il club è una grancassa irrinunciabile. E, dunque, resta in sella per un tempo infinito: trentatré anni. Quattro diversi decenni. Fa in tempo a scivolare in B un paio di volte. Riesce a far brillare le pupille disincantate dei tifosi quando acquista dall’Atalanta il centravanti svedese Hanse Jeppson e Bruno Pesaola dalla Fiorentina.
Il suo Napoli non ingrana mai, ma Lauro resta un precursore in molti sensi. Come quando sobilla la stampa, indicando nell’allenatore Monzeglio la causa di tutti i mali calcistici del club. Ne esce fuori un gran battage fatto di bordate e contro bordate pubbliche. Una rissa verbale che anticipa di un pezzo un filone del giornalismo sportivo.
I suoi interessi esterni però premono molto di più sulle pareti della sua esistenza. Il Napoli è un gingillo da utilizzare per rastrellare voti. Un’estensione del suo smisurato ego. Però c’azzecca: diventa sindaco della città e subito lancia una campagna per censurare tutte quelle pellicole che ne parlano a sproposito. La gente lo ribattezza: ora è “Il Viceré”. Accresce gradualmente la sua influenza politica e viene pure eletto deputato, ma deve rinunciare per incompatibilità manifesta con la carica di primo cittadino. Ci riproverà, mai saturo, fondando un suo movimento, il partito monarchico popolare. Eletto.
Arguto, incline allo scontro, dotato di un temperamento indomabile: Achille Lauro è stato - anche -
il presidente del Napoli. La semantica è importante: utilitarismo conclamato, più che passione viscerale.Gli succederà Corrado Ferlaino e quella, sotto ogni punto di vista, sarà tutta un’altra navigazione.
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