Fa rifornimento alla pompa di benzina più vicina al campo d’allenamento. Ventimila lire sgualcite. Ogni volta che estrae una banconota esce anche quel santino. Domenico lo spolvera e lo bacia teneramente. Roberto Baggio torna rinfoderato tra monete e scontrini, ma è un pensiero saldamente fissato nella corteccia cerebrale di Domenico Morfeo. Socchiude le palpebre e immagina un pezzo di vita che deve ancora succedere. Sì, sarà lui il suo erede. Il nuovo numero dieci più forte d’Italia. Un sogno possibile.
Atalanta, lo svezzamento di un talento fulgido
Cesare Prandelli è sempre stato uomo dai pensieri lunghi. Per farli, però, devi riempirli di sostanza. Quella che gli si distende davanti alle pupille, nei campini di allenamento del bergamasco, è più che abbondante. Quel ragazzino abruzzese che svolazza per il campo possiede un corredo genetico da fuoriclasse. Leva calcistica del ’76, stesso anno di Totti, Sheva, Nesta e di una congerie di altri fenomeni. Lui è sottile e livellato di statura, ma il suo calcio pare tutt’altro che gracile. Con quel mancino ricama tessiture che squarciano il grigiore della banalità inferta dagli altri, quelli normali. Per un tecnico delle giovanili è una compressa effervescente. Di più: un Graal di opportunità dal quale abbeverarsi avidamente. Amorevolmente accudito, il piccolo Morfeo si svezza: quattro anni con la Dea. Ventidue reti. Grattando quella lucente bardatura tecnica però, vengo giù preoccupanti pezzi d’intonaco.
Viola: andate, ritorni, luce e mestizia
L’ascesa di Domenico è dirompente. Con quel baricentro riesce a muovere il pallone ad un’altra cadenza. Il suo repertorio fintistico procura cefalee ricorrenti ai difensori avversari. Però quella spolverata di classe lì avrebbe bisogno di essere accompagnata da una dedizione ferale per tramutarsi in qualcosa di oltre. Lui ha altre idee. Tenta di eludere i carichi più pesanti. Non disdegna una sigaretta all’uscita dagli spogliatoi, né un goccetto per far festa. Si accontenta di essere pittorico. Calcia via il fervore dell’atleta. Ad un certo punto se lo prende la Fiorentina. Aveva disputato un torneo di Viareggio spaziale. Si era infortunato a ridosso della finale, ma voleva giocarla a tutti i costi. Allora Prandelli lo porta in pineta e gli fa: “Se centri tre volte consecutivo quel pino con il pallone sei titolare”. Missione compiuta in scioltezza. Con la Viola sarà una storia di andate ed eterni ritorni. Nel ’97/98 gioca un calcio fotonico, irretendo e irritando le retroguardie altrui. Incassa per questo una quantità di calcioni e inizia ad erompere una certa vena rissaiola. Quando però in riva all’Arno arriva Edmundo lo spartito si riga. L’imperativo categorico è che deve giocare il brasiliano. Domenico sprofonda in panchina e sbatte di grugno contro la sliding door della Nazionale maggiore.
Inter, la grande occasione
Un trequartista in un flipper. Mollata Firenze, Morfeo inizia a rimbalzare da un club all’altro, sempre portandosi a spasso quel bagaglio tecnico tracimante, sempre appannato dalla voglia di faticare molto che langue. Milan, Cagliari, Verona, un ritorno sia a Firenze che a Bergamo e poi lei, la grande occasione. Nel 2002 se lo aggiudica Moratti, petroliere nella vita, sognatore di professione. L'Inter potrebbe significare riscatto, rivalsa appagata, universo finalmente sintonizzato sulle sue frequenza. Ma le speranze vengono disarmate dalla realtà. Surclassa gli avversari a piacimento e scodella assist vellutati, ma segna soltanto un gol in campionato. Timbra anche in Champions, contro il Newcastle, ma è decisamente troppo poco per uno di quella risma calcistica. Un altro match di coppa, contro il Leverkusen, sancisce il suo epilogo in maglia nerazzurra: litiga furiosamente con Emre per calciare un rigore che poi fallisce. Dalla panchina Hector Cuper scuote la testa: non ne vorrà più sapere.
Parma, un’oasi felice dopo troppe delusioni
Un giacimento calcistico in larga parte dilapidato. La storia pallonara di Morfeo è un avvitamento determinato da un fatale mix d’irruenza e pigrizia. Fin quando, almeno, non conosce Parma. Il Tardini sarà il suo buen retiro. Atterrato su questa zolla fortunata, armerà ancora per anni il cinismo dei centravanti di turno - dicono che Gilardino gli abbia eretto un monumento - e sprigionerà gli ultimi sontuosi sussulti, prima di imboccare la parabola discendente della sua carriera.
Che, in fondo, lascia incollato al cuore un potente senso di irrisolto. Il numero dieci potenzialmente più forte di sempre. La distanza tra quel che poteva essere e non è stato. L’unico dribbling mai riuscito a Domenico Morfeo.
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