Sandro Ciotti, la voce rauca che accarezzava i sogni degli italiani

Radiocronista, ma anche calciatore, paroliere, musicista: ritratto del cantore per eccellenza del romanzo pallonaro nostrano. Nel suo curriculum 2400 radiocronache, quaranta festival di Sanremo, 15 Giri d'Italia e 14 Olimpiadi

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Di sicuro quella trasferta non l'aveva immaginata così. Un italiano guarda a Città del Messico come ad un catino rovente e invece ti ritrovi zuppo fin dentro le ossa. Dopo quattordici ore ininterrotte sotto la pioggia anche i pensieri iniziano a farsi umidi. Però Sandro Ciotti non si muove. Resta dritto per tutto quel tempo compresso dentro un giorno delle Olimpiadi del 1968, a raccontare quello che sta succedendo. La voce è ancora morbida, levigata. Dopo tutta l'acqua incassata però si svilupperà una raucedine infida che, mista alle moltissime sigarette avidamente succhiate, produrrà quello che d'istinto gli sembrerà un patatrac. I medici che lo visitano, del resto, scuotono vistosamente il capo. Il verdetto è terrificante per uno che vive facendo radio: edema alle corde vocali.

Ciotti è sconvolto. Teme di dover appendere prima del tempo quel suo talento raro. Invece Sergio Zavoli e Paolo Rosi lo rassicurano: quella insolente seccatura può diventare un marchio di fabbrica. Un fatto così potenzialmente letale - per la professione - stappa una carriera che diventa rutilante. E che era iniziata ufficialmente qualche anno prima, nel 1958, quando era approdato in Rai per collaborare con Lello Bersani ad alcune trasmissioni cinematografiche. Quel mondo lo attirava da tempo. Da piccolo Sandro trangugiava film e canzoni. Però ci sapeva fare anche nello sport, al punto che era entrato a far parte delle giovanili della Lazio e poi lo avevano preso a giocare in serie C.

Però premeva per erompere, in sottofondo, un sentimento genetico. Succede quando sei figlio di un giornalista e il tuo padrino di battesimo è Trilussa. Sandro aveva scoperto che ci sapeva fare pure con le parole. E d'un tratto tutto era diventato più limpido: smesso di giocare, avrebbe fatto il giornalista. Meglio se sportivo. Così sbocciava Tutto il calcio minuto per minuto. Venti milioni di italiani con i padiglioni auricolari incollati alla radiolina, a pendere dalle tue labbra per novanta minuti più recupero, pregando che tu pronunci frasi salvifiche per la loro squadra.

Ciotti era diventato il cantore di quel romanzo popolare. Prestava occhi e voce a chi si trovava lontano, trasformando ogni partita in una liturgia attesa spasmodicamente per tutta la settimana. La sua voce increspata e profonda, le figure retoriche di cui cospargeva le cronache, quello stile a tratti barocco, ma comunque irresistibile. Era un modo descrittivo, quasi pittorico, di intendere lo sport tutto, non solo il calcio. Distante da quello del collega rivale Ameri, con il quale fioccavano battibecchi e interruzioni - tra cui il celebre Scusa Ameri - e che invece prediligeva un racconto ossequioso, puntuale, ritmico sì, ma meramente rivolto a informare.

Così tra uno sciabolata in avanti e un clamoroso al Cibali, aveva creato una sua epopea personale, diventando figura di culto nell'orizzonte del giornalismo sportivo italiano. Sapeva stare a suo agio anche in tv. Un giorno triste, mentre conduceva La domenica sportiva, dovette apprendere e dare in diretta la notizia della scomparsa di Gaetano Scirea, mentre Tardelli - distrutto - lasciava lo studio. Qualche anno dopo, era il maggio del 1996, Ciotti prendeva la linea per salutare tutti quanti: “Quella che ho faticosamente cercato di concludere è stata la mia ultima radiocronaca. Un grazie a tutti gli ascoltatori, mi mancheranno”. Era l'ultimo atto di un racconto durato per 2400 radiocronache di partite di calcio, ma c'era stato anche molto di più, in quella sua strada costellata di interessi. Quaranta Festival di Sanremo, 15 Giri d'Italia, 14 Olimpiadi, 9 tour de France.

E, di sicuro, c'era stato anche il Ciotti oltre lo sport. A casa aveva quintali di vinili. Quella sua passione per la musica, pulsante fin da ragazzino, se la sarebbe sempre portata dietro. La Rai l'aveva capitalizzata mandandolo spesso a Sanremo - dove raccontò anche il suicidio di Tenco, avanzando diversi dubbi - e caldeggiando la collaborazione con grandi artisti. Scrisse canzoni per Enzo Jannacci e Peppino Di Capri.

Intervistò Modugno, Mina, Gino Paoli e poi virò anche sul cinema - altra passionaccia - confrontandosi anche con Fellini.

Quando se ne andò, un giorno di vent'anni fa, rimanemmo disorientati. Era una voce che c'era sempre stata. La voce rauca che accarezzava i sogni degli italiani.

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