Se la Sardegna è stata la sua terra adottiva, se il Cagliari la sua passione trasformata in seconda pelle, la Nazionale è stato il suo tatuaggio perenne disegnato metaforicamente in due capitoli uno più esaltante dell’altro. Da calciatore Gigi Riva vinse l’Europeo del ’68 e fu incoronato imperatore dalla stampa mondiale durante il mondiale messicano del ’70, l’imperatore del gol e del coraggio trasformato in corazza personale. Ebbe bisogno di scaldare il suo sinistro prima di esaltarsi sulle sponde magiche di Rivera, la sua musa prediletta. Non fu soltanto il miglior marcatore della storia patria, acclamato dalle folle che lo paragonarono a una divinità. Sacrificò anche il proprio fisico rimediando un paio di dolorosi infortuni in maglia azzurra senza mai sentirsi una vittima.
Il secondo capitolo della sua carriera azzurra fu ancora più esaltante se possibile. Perché scelto da Antonio Matarrese presidente della federcalcio come team manager accompagnó per mano ct e campioni in erba tra europei e mondiali per la bellezza di 25 anni scanditi da una presenza preziosa e silenziosa, spesso scandita da rari interventi pubblici e tantissimi privati, con nuvole di fumo di sigarette che ne annunciavano la presenza. Cominciò con Vicini sfiorando il tetto del mondo, passó al fianco di Arrigo Sacchi fermandosi ai rigori di Pasadena. Tenerissima la scena finale del suo abbraccio a Franco Baresi in lacrime per il penalty salito al cielo degli Usa. Ma la storia mise tutto a posto nella notte mondiale di Berlino.
Quando la depressione e il mal di gambe cominciarono a farsi vivi divorandolo giorno dopo giorno, Gigi Riva decise di farsi da parte ferito a morte dalle news pubblicate sull’arrivo di Lele Oriali al suo posto. Nessuno - nemmeno il presidente dell’epoca Tavecchio - ebbe il coraggio di anticipargli quella scelta accettata con nobile distacco. Perché nessuno più sarà mai Gigi Riva.
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