In Italia se n'erano già accorti tutti, anche se aveva attraccato qua il suo calcio qualitativo soltanto sui titoli di coda della carriera. Cadenze molleggiate, testa perennemente sollevata, sguardo periferico accentuato. Non serviva un osservatore consumato per intuire che, con quelle caratteristiche lì, Pep Guardiola avrebbe potuto comandare con disinvoltura il gioco anche dalla panchina.
A Barcellona, da perfetto novizio, aveva centrato uno sconcertante triplete. Con quella squadra, sospinta da un Messi ingiocabile e dai ricami sontuosi degli Xavi e degli Iniesta, era salito sul tetto d'Europa per ben due volte, sempre strapazzando il Manchester United. Ma in quella terra dai ritmi placidi e il sole che cade morbido come un balsamo aveva fatto molto di più. Perché se i risultati restano termometro della vita o dipartita calcistica di un manager, la via con cui li consegui non è per nulla secondaria. Al Camp Nou, Pep, aveva inventato un nuovo modo di intendere e progettare calcio. Possesso palla esasperato per linee orizzontali, ma mai asfittico. Appoggio costante del compagno. Riconquista furente del pallone. E imbucate squarcianti a mandare in porta le punte ed i centrocampisti d'inserimento. Tiki Taka, era stata la mirabile sintesi pallonara.
Praticabile se hai per le mani molto più di una combriccola di onesti pedatori. Che poi è la critica che gli viene spesso rivolta: "Sì, ma prova a vincere senza uno squadrone srotolato in campo". Però c'è anche chi resta assiduamente al palo, pur irrorato da vagonate di milioni di euro. L'ultimo schizofrenico Chelsea, per dire. Il PSG sovente preso a calci in Champions. Il Man Utd appena riemerso da lunghi anni di smarrimento. La verità è che Pep è stato un demiurgo, al pari di Michels e del suo calcio totale. Allo stesso livello di Sacchi e della sua zona.
La scintilla non era invece mai scoccata al Bayern. Supercoppe perse in sequenza. Semifinali di Champions grandinanti, ma tutte cannate. Ai tempi i detrattori ci sguazzavano: "Visto? Senza Messi il giochino non gli riesce mica". Anzi, il tiki taka ai tempi della Baveria pareva una solenne iattura. Pep era stato costretto a deglutire l'amara pastiglia, poi le strade si erano inevitabilmente divise.
Il Manchester City era divenuto la successiva terra promessa. Quella dove rinnovare il suo verbo calcistico, per non rimanere impigliato nei tranelli del recente passato. L'intelligenza calcistica di Guardiola, mista ad un'acquisita maturità, lo aveva reso ancora più intricato da affrontare per gli avversari di turno. Aveva capito, l'uomo di Santpedor, che l'unica chiave per vincere era formulare modelli aderenti alla realtà di turno. Va bene il possesso, ma il City aveva - ed ha - caratteristiche che possono renderlo più contundente. Palla che circolava più rapida. Verticalizzazioni che si moltiplicavano.
Abbastanza per dominare in Premier, comunque il campionato più competitivo del mondo, ma non per trionfare in Champions, l'ossessione nemmeno troppo segreta di sceicchi e tifosi. Perché quando abitui il palato a pietanze succose l'appetito si moltiplica. Eppure, nella coppa dalle orecchie sporgenti, erano arrivate sconcertanti eliminazioni agli ottavi e ai quarti. Poi una finale, contro il Chelsea, maldestramente persa. E un'altra semifinale.
Il City vuole il trofeo più luccicante, ma lo desidera ardentemente anche Pep. Sarebbe il suo modo per dimostrare a tutti che può vincerlo anche senza gli alieni del Barcellona, per quanto questo City - pur differente per caratteristiche - possieda una rosa mostruosa. Ma qui, non distante dalle ceneri di Maine Road, Guardiola ha di nuovo inventato calcio. Stavolta rimescolando la tattica, più che i concetti di gioco. Centrali difensivi che diventano registi. Ex ali a svaporare dietro alla punta.
Inserimenti sincronici e avanzate rugbystiche. L'ultima sua grande rivoluzione è l'assenza totale di punti di riferimento certi.Se basterà per rivincere la Champions lo sapremo tra poco. Di certo non c'è mai stato così vicino dai tempi di Barcellona.
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