Il calvario istituzionale del Professore

Il primo smacco per l’Unione: l’eventuale investitura solo dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato

Paolo Armaroli

Con buona pace dei buontemponi (si fa per dire) dell'Unione, non siamo ancora usciti dal provvisorio. Difatti alla Camera il centrosinistra ha prevalso appena per una manciata di voti. E non è detto che un accurato controllo delle schede contestate non corregga un risultato acciuffato da Prodi e dai suoi cari alla ventiquattresima ora dopo una notte al cardiopalmo. Certo è che entreremo ben presto nel precario. E non occorre sforzarsi le meningi per capire il perché. Infatti il trionfalismo del tutto infondato e irresponsabile di Prodi e Fassino non ha altra spiegazione che questa: al popolo di sinistra per ore e ore infreddolito in piazza i capataz dell'Unione hanno inteso dare coraggio. E, al tempo stesso, farsi coraggio.
La verità è che si profila un calvario istituzionale del quale qui vanno riassunte le tappe. Com'è noto, il 28 aprile si riuniranno per la prima volta le nuove Camere. L'assemblea di Montecitorio sarà presieduta dal più anziano tra i vicepresidenti della legislatura precedente. Quando nessuno di essi sia presente, si risale ai vicepresidenti delle legislature anteriori. In loro mancanza, l'assemblea è presieduta dal decano per età. Mentre l'assemblea di Palazzo Madama sarà presieduta dal più anziano di età. Dopo di che, in entrambi i rami del Parlamento, si procederà alla elezione dei rispettivi presidenti. Al Senato, al quarto scrutinio si ricorre al ballottaggio. Perciò il 29 aprile avremo di sicuro una fumata bianca. Il ballottaggio si spiega del resto con la circostanza che il presidente del Senato è il supplente del capo dello Stato in caso di sua assenza o impedimento. In teoria alla Camera, dove non è previsto il ballottaggio, le cose potrebbero anche andare per le lunghe. Ma se il centrosinistra troverà in tempi rapidi un accordo, non dovrebbe tardare neppure l'elezione del numero uno di Montecitorio. E, si capisce, sottolineiamo il «se».
Nei primi giorni della settimana successiva, ossia ai primi di maggio, verranno eletti i presidenti dei gruppi parlamentari e gli uffici di presidenza, che oltre ai presidenti si compongono di quattro vicepresidenti, tre questori e otto segretari. A questo punto tutto sarebbe pronto per le consultazioni di rito al Quirinale in vista della formazione del nuovo governo. Tuttavia c'è un «ma» grosso come una casa. Non foss'altro che per ragioni di correttezza costituzionale, Ciampi ha fatto sapere in un primo tempo che avrebbe passato la patata bollente al suo successore in ogni caso, e poi, correggendo il tiro, ha aggiunto che avrebbe conferito l'incarico solo nella ipotesi di netta affermazione dell'una o dell'altra coalizione. Ma siccome la presunta vittoria dell'Unione potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, è chiaro che la parola spetterà al nuovo inquilino del Quirinale.
E già questo è il primo smacco che subirà l'Unione, partita per suonarle e pervenuta a un sostanziale pareggio elettorale. Perciò prima sarà eletto il nuovo capo dello Stato e poi quest'ultimo dovrà trovare la chiave del rebus ministeriale. Il presidente della Camera, nella sua veste di presidente del Parlamento in seduta comune, riunirà in seduta congiunta le Camere, integrate dai 58 delegati regionali (uno per la Valle d'Aosta e tre per le altre regioni, eletti dai rispettivi consigli in modo che siano rappresentate le minoranze, con il risultato che due saranno appannaggio della maggioranza e uno dell'opposizione) per l'elezione del successore di Ciampi tra l'11 e il 13 maggio. Ossia pochi giorni prima del 18 maggio, quando Ciampi decadrà improrogabilmente dal mandato.
È ben vero che il terzo comma dell'articolo 85 della Costituzione stabilisce che, nel caso di Camere sciolte o prossime alla loro cessazione, sono prorogati i poteri del presidente in carica. Ma questa disposizione è volta allo scopo di impedire che sia un Parlamento scaduto o prossimo alla scadenza a eleggere il nuovo inquilino del Colle. Ora, dal momento che il nuovo Parlamento praticamente c'è già ed è pienamente in grado di eleggere il capo dello Stato, si dovrà applicare il secondo comma dell'articolo richiamato. Da ciò consegue che, nell'ipotesi che i grandi elettori parlamentari non riescano a eleggere entro il 18 maggio il successore di Ciampi, quest'ultimo dovrebbe essere temporaneamente sostituito dal presidente del Senato.
E la Casa delle libertà si troverà a un bivio. O in uno spirito bipartisan potrebbe concorrere con l'Unione alla rielezione di Ciampi al primo scrutinio, com'è accaduto solo due volte, con Cossiga nel 1985 e con Ciampi nel 1999. O, per far calare le penne a una Unione alla quale il risicatissimo successo ha dato alla testa, potrebbe logorarla giorno dopo giorno in una serie infinita di scrutini andati a vuoto, visto e considerato che i franchi tiratori nel segreto dell'urna spunterebbero come funghi, dal momento che ogni componente della coalizione di centrosinistra avrà in testa il candidato «salvifico». In questa seconda ipotesi l'Unione andrebbe in frantumi e per sfinimento non resterebbe altro da fare che confermare all'ultima ora Ciampi, mendicando i voti della Casa delle libertà. Nel frattempo, si capisce, il governo Berlusconi resterà in carica per il disbrigo degli affari correnti fino al giuramento del nuovo problematico governo.
Sarà Prodi il prossimo presidente del Consiglio? A occhio e croce, non ci giureremmo. È vero che in Inghilterra talvolta si è governato con un solo seggio di scarto. Ma Oltremanica si usa il fair play. La regola non scritta è quella del pairing, in forza del quale se è assente alla Camera dei Comuni un certo numero di deputati della maggioranza, escono dall'aula altrettanti esponenti dell'opposizione. La nostra è invece la terra che ha dato i natali a Niccolò Machiavelli. Come ammoniva il segretario della Repubblica fiorentina, da noi le botte non si danno a patti.
Perciò, anche qualora Prodi ottenesse la fiducia in entrambi i rami del Parlamento, come a questo punto è probabile, poi non sarebbe in grado di tradurre in concrete misure legislative il proprio indirizzo politico, che del resto pirandellianamente è uno, nessuno e centomila. In teoria, i senatori di diritto e a vita, quasi tutti con il torcicollo a sinistra, potrebbero fare la differenza. Ma Cossiga, da quell'impeccabile costituzionalista che è, ha subito messo le mani avanti. Sarebbe uno schiaffo al popolo sovrano se i sullodati senatori si prestassero a fare da stampella a un centrosinistra che ha appena tre seggi in più. Ma non avrebbe da solo la maggioranza assoluta. Che è di 162 (metà più uno dei 315 senatori elettivi e dei 7 a vita) contro i 159 senatori dell'Unione. E allora delle due l'una. O mancherebbe di continuo il numero legale, necessario per la validità delle deliberazioni, qualora i senatori di diritto e a vita uscissero dall'aula per correttezza istituzionale. O, se i predetti senatori decidessero di astenersi nelle votazioni, il governo andrebbe di continuo sotto, dato che al Senato l'astensione gioca contro la maggioranza.
D'altra parte, non si potranno sciogliere subito le Camere. E non solo per le scadenze improrogabili che ci attendono, a cominciare dalla Finanziaria che impegnerà il Parlamento da ottobre a dicembre. Ma anche perché non ci sarebbero i tempi tecnici. Dallo scioglimento delle Camere a nuove elezioni deve intercorrere un lasso di tempo compreso tra i 45 e i 70 giorni. E sarebbe grottesco votare in pieno agosto.

A questo punto la cosa migliore sarebbe forse quella di costituire un governo più o meno tecnico a termine al fine di consentire nuove elezioni nella prossima primavera. E la personalità più indicata per guidare un ministero del genere, sempre che non sia riconfermato al Quirinale, sarebbe Carlo Azeglio Ciampi. Così è se vi pare.
paoloarmaroli@tin.it

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