Canzoniere d’amore moderno

Da qualche settimana, sempre nelle condizioni peggiori per leggere e concentrarsi (mai su una comoda poltrona in una casa di campagna), devo dedicare questo articolo all’ultimo libro di Sebastiano Grasso, Il talco sotto le ballerine (titolo suggerito dal claudicante Aldo Busi), con una utile e autorevole introduzione di Ezio Raimondi, i disegni di Botero, De Maria, Paladino, Pomodoro, Valentini (Edizioni ES); e finalmente, in aereo, fra tempestosi viaggi dal Brasile alla Sicilia e dalla Sicilia a Torino, ne ho con me una copia che mi mette nelle condizioni di scrivere.
È un singolare canzoniere d’amore, distribuito in una tetralogia (ma finirà qui?) dedicata a una Laura che si chiama, e si richiama, Giuliana. L’andamento dei versi, in tono dominante, continuamente seducente (anche per il lettore, introdotto a osservare un amore dichiaratamente clandestino), è colloquiale, disincantato e si inscrive in una tradizione intimistica che va dall’ultimo Montale di Xenia a Rodolfo Wilcock, sfiorando Borges; ma la novità, rispetto ai precedenti, è che Giuliana parla e ogni componimento è introdotto da alcuni versi di lei, o messaggi amorosi, rappresentandone lo svolgimento o la risposta. La sensazione forte è che Giuliana esista e continui potentemente a esistere nel desiderio e nella fantasia di Grasso. E più ancora che nelle raccolte precedenti, non riuscendo a distaccarsi dal pensiero di lei, Grasso restituisca la fisicità, perfino imbarazzante, indiscreta dell’incontro amoroso e dell’atto sessuale, come soltanto nella letteratura omosessuale è accaduto. Egli viola la pudicizia, non temendo nella verità delle parole, l’oscenità e va oltre i confini segnati dai poeti d’amore che (quando non la insultano come Antonio Delfini, soverchiamente amandola) idealizzano la donna, la innalzano, sublimando il piacere erotico in una contemplazione estatica. Penso, oltre che a Petrarca e a Montale, a Leopardi, a Bécquer, a Salinas.
Grasso non teme l’impudicizia, anzi la persegue, se ne compiace; ci chiama a guardare e a sentire non il suo desiderio, ma il suo gesto amoroso, il suo multiforme amplesso, intercettando il compiacimento di alcuni morbosi momenti della poesia di Saba, di Penna, di Wilcock. Ma la sua frontiera è l’amore eterosessuale di cui esprime tutti gli aspetti più riservati, le manifestazioni più inconfessabili. È tranquillo nel descrivere le condizioni della sua eccitazione e non deve superarle con lo slancio del coinvolgimento e della provocazione. Per un momento vorremmo sottrarci, poi siamo trascinati nell’impeto che conosciamo ma che non vorremmo rivedere e riconoscere. D’altra parte lei lo invita, lo provoca: «Ti voglio quando uso i tuoi occhiali da vista, quando mi baci i peli del pube e sussurri le tue eccitanti frasi che non sento». E lui risponde, a tono, spiega, articola: «Con i miei occhiali bordeaux leggi gli appunti dei geroglifici / Mi spieghi qualcosa mentre / le mie labbra pettinano il tuo pube / e non senti / le parole che dico». E anche il dialogo sui temi più alti, della maternità ad esempio, passa attraverso scorci di brutalità che si esprimono in gesti e parole immediati, quasi insostenibili: «Ti voglio quando mi chiedi un figlio che non ti posso dare», Giuliana «ti tiravi su la veste, mostravi il ventre piatto e dicevi - che non si poteva (“l’età... e poi come dirlo - ai miei figli”). M’hai rubato un sogno».
Abbiamo davanti a noi giorni, notti, ritagli di mattine, tra amplessi, arrivi e partenze: «L’alba è arrivata da un paio d’ore, il tuo treno da dieci / minuti. Altri venti prima che il metro ti porti / da me...». Il diario degli incontri commemora momenti insignificanti, schermaglie di ordinaria gelosia, con una semplicità disarmante che ci riguarda, ci coinvolge perché riproduce anche le nostre sensazioni meno confessabili, meno nobili: «Giuri che da oltre dieci anni tuo marito non ti tocca». E intreccia doppi sensi e doppi viaggi: di lui e di lei da parti opposte ma sempre legati da un desiderio che è come un vizio, una ossessione.
Non si intende se è l’amore o la rabbia, il piacere o la vendetta che ispirano questo canzoniere, autentico, necessario, irritante. Le diverse pulsioni lo rendono tenero, violento, brutale, lirico in una varietà di registri che, nella seconda parte del canzoniere, trovano didascaliche soluzioni: «Dieci anni di una donna maritata e di un poeta che ha svuotato il passato». Ma essi non si concludono con un congedo o con una lapide, ma con un fuoco, con un incendio che si esprime in parole in cui gli atti amorosi non sono ricordati ma vissuti, hic et nunc, per la prima volta. Forza delle parole, anche quando ci spiegano la loro motivazione: «Che cosa resterà di te? Cosce, seni striati e cadenti... finirai presto nell’erba, bellissima puttana, mio grande amore». E ancora: «Basta, mi dico, non meriti i miei baci, / e neppure duemilaecinque telefonate, ma non riesco a dimenticarti...». E tutto si risolve in un rebus, in cui la «bellissima puttana» merita riconoscenza, perché ha consentito l’euforia delle parole. Sarà amore, sarà follia.

Ma genera poesia: «Vorrei scriverti per raccontarti che cosa / mi ricordo e che cosa ho già dimenticato; / ma poi non so più perché mi sono seduto / al tavolino, ho preso la penna in mano / e l’ho appoggiata sul foglio. La follia: / mi ripeto che in qualche modo c’entra / la follia, ma non so che cosa fare e smetto».

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