Martedì scorso si è svolto a Torino un grande convegno dedicato a Piero Gobetti, morto esule in Francia a soli 24 anni, dopo che una squadra fascista l'aveva selvaggiamente picchiato per la sua opposizione al regime.
Figura di grande rilievo, la sua, come organizzatore di cultura (fondò una casa editrice aperta ai nuovi talenti, fra i quali Eugenio Montale con i suoi Ossi di seppia) e come pensatore politico (fondò la rivista Energie nove, e poi La Rivoluzione liberale). All'inizio fu fortemente influenzato da Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, entrambi assai critici verso il marxismo. E infatti Gobetti rifiutava il concetto marxista di classe e della società come insieme di classi, perché, diceva, al di sopra delle classi c'è la nazione, che le trascende. E di fronte alla rivoluzione bolscevica in Russia assunse in un primo tempo un atteggiamento critico. «Carestia e deperimento - scriveva - sono determinati dall'aver voluto tentare la realizzazione del socialismo in un ambiente impoverito, estenuato, disorganizzato, mentre, anche secondo Marx, il collettivismo potrebbe derivare solo da un'esuberanza delle forze produttive». E aggiungeva: «A tutto ciò naturalmente si accompagna il disordine morale. Bolscevismo e intolleranza generano rappresaglie e vendette». Ma Gobetti - sotto l'influsso di Gramsci - abbandonò presto queste riserve. Certo, diceva, l'esperimento socialista in Russia era fallito. Ma aggiungeva che «la rivoluzione russa non è solo nell'esperimento socialista. Là si gettano le basi di uno stato nuovo. Lenin e Trotzki non sono solo dei bolscevichi, sono gli uomini d'azione che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima». E concludeva: «L'opera di Lenin e di Trotzki rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un'affermazione e un'esaltazione di liberalismo».
Sono affermazioni singolari, perché lasciano intravvedere una concezione del liberalismo estranea al pensiero liberale occidentale. Il quale ha sempre visto nel liberalismo la teoria e la pratica della protezione giuridica, attraverso lo Stato costituzionale, delle libertà individuali. Gobetti subì, nel biennio 1919-1920, l'influenza massiccia dell'Ordine nuovo di Gramsci e del movimento dei Consigli di fabbrica. E una volta trasformato L'ordine nuovo da settimanale in quotidiano, Gramsci gli affidò la critica teatrale. In questo periodo il giovane intellettuale torinese, mentre si distaccava in modo definitivo dai gruppi salveminiani, veniva sempre più radicalizzando la propria concezione politica, che individuava ormai nella rivoluzione proletaria il fatto decisivo del liberalismo moderno. È naturale, quindi, che venisse radicalizzando anche il giudizio sulla rivoluzione bolscevica in Russia, e che mostrasse una simpatia sempre più grande per Lenin e Trotzki. Poco importava che i bolscevichi imponessero i loro obiettivi con la violenza e col terrorismo, perché, diceva Gobetti, «la violenza si può usare quando vi sia persona capace di esercitarla, e gli altri la tollerino. E questo esercitarla e questo tollerarla sono l'espressione esterna di un fatto interiore che ha la sua ragione negli spiriti». Sono affermazioni che oggi suonano a dir poco singolari, e assai poco liberali; ma ci appaiono anche patetiche, perché dalla violenza politica sarebbe stato colpito Gobetti stesso, tragicamente, non molto tempo dopo, quando lo Stato liberale cadrà sotto i colpi del fascismo.
Quando, nel febbraio del 1922, uscì il primo numero della Rivoluzione liberale, nel manifesto della rivista Gobetti ribadiva che «il movimento operaio è stato in questi anni il primo movimento laico d'Italia, il solo capace di recare alla sua ultima logica il valore rivoluzionario moderno dello Stato e di esprimere la sua idealità religiosa anticattolica, negatrice di tutte le Chiese». E aggiungeva: «È nostra ferma convinzione che l'ardore e l'iniziativa che condussero gli operai all'episodio dell'occupazione delle fabbriche non siano spenti per sempre e non si possa in ogni modo acquetare con le lusinghe della legislazione sociale». Da un punto di vista strettamente dottrinale, si era dunque convertito al marxismo e al comunismo? Certamente no, perché per lui la civiltà capitalistica non era avviata al tramonto, in quanto essa, preparata dai Comuni, sviluppatasi in Inghilterra, affermatasi poi in tutto il mondo civile, era la civiltà del risparmio, delle intraprese che per vivere hanno bisogno di un capitale mobile, e in quanto tale mostrava una grande vitalità in tutta Europa e negli Stati Uniti. Né essa doveva essere identificata con gli interessi di una classe soltanto, perché, diceva Gobetti, la civiltà capitalistica «è al di sopra delle classi, vuole l'opera di tutte le classi che vi partecipano e la creano concordi pur lottando tra sé inesorabili, ostili sino a giurarsi reciproca sopraffazione».
Senonché, detto ciò, Gobetti affermava che i capitalisti ormai non erano più in grado di adempiere la loro funzione di risparmiatori e di imprenditori; gli operai, attraverso la loro organizzazione, attraverso i Consigli, potevano sostituirsi agli industriali e salvare la civiltà capitalistica. Per Gobetti, insomma, la classe operaia era l'unica classe capace di preservare il capitalismo, sostituendosi alla borghesia.
Per questo la classe operaia aveva un ruolo decisivo nel mondo moderno, e meritava di essere appoggiata nella sua lotta, anche a costo di pagare lo scotto di un periodo di «dittatura del proletariato». In questo modo Gobetti aveva delineato un nuovo mito politico, che nulla aveva a che fare con il liberalismo e con la democrazia.
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