Un paesaggio aspro popolato da pecore con quattro corna dette «cifra», forse un sulfureo riferimento a Lucifero. Asini neri che accompagnavano l'uomo al suo stesso passo nei lavori più duri, dall'alba al tramonto. E galline «anarchiche» che sfuggivano alla conta di latifondisti cui, per una antica, odiosa legge, spettavano i due terzi di ogni raccolto o animale.
Era questo l'Appennino italiano, da Reggio Emilia ad Avellino, fino a solo pochi decenni fa. Un mondo perduto di riti e tradizioni, ma anche di specie autoctone che per millenni hanno accompagnato l'uomo nel suo duro lavoro, in una natura spesso ostile. Specie che oggi rischiano l'estinzione, come certi animali della savana. In Val di Comino, tra Lazio, Abruzzo e Molise due uomini, un bancario e un veterinario, hanno intrapreso una lotta impari per salvare alcune di queste specie perdute. Al Gallo Larino di Monte San Giovanni Campano (FR) stanno allevando animali che, come in un documentario vivente, raccontano storie di un mondo scomparso. Come ci racconta Roberto Dalia, bancario di professione, storico e allevatore per passione. «Mi sono sempre interessato agli animali ma una decina d'anni fa in un libro vedo la foto di un ariete con quattro corna. All'inizio penso a un fotomontaggio. Ma faccio ricerche e scopro che esiste davvero, è addirittura catalogato dall'Arsial della regione Lazio tra le specie autoctone a rischio. Decido allora di allevarlo. E incontro il veterinario Cesare Veloccia che le conosceva. Nel 2000 ce n'erano 300 capi. Dieci anni dopo ne erano rimasti sette».
Si era disperso il gregge di un vecchio pastore che le aveva preservate «forse perché i greggi in transumanza si mischiavano, ai tempi non c'erano marchiature, e avrà pensato che gli arieti a quattro corna potevano essere identificati immediatamente come suoi». La pecora quadricorna proviene dalla Siria dove ancora oggi ci sono animali simili, ma che hanno perso le quattro corna. «Potrebbe essere arrivata in Ciociaria, terra di passaggio, durante l'ultima glaciazione, in epoca romana o al più tardi durante le Crociate». Era diffusa dalla Liguria alla Campania, e il carattere emerge saltuariamente nelle varie razze appenniniche «solo che gli allevatori lo considerano un difetto genetico, invece è un carattere storico che riaffiora».
Oggi grazie a un paziente lavoro le pecore sono 40: le ultime al mondo. È presto per dichiararle fuori pericolo. Nell'allevamento trova posto anche l'asino dei Lepini, piccolo e nero, per secoli compagno inseparabile dei contadini della zona: «Tutti ce l'avevano, era mezzo di trasporto e bestia da soma, tanto che nel mio paese la strada principale è della larghezza esatta per far passare un asino e una persona a fianco». Oggi gli asini in campagna non servono più, ne sono rimasti 22 nella provincia: «Ma io ho comprato un terreno in montagna e li userò per la raccolta delle olive». Infine la gallina Ancona, uno spirito libero che per la tendenza ad allontanarsi dal pollaio e per il colore (nera a chiazze bianche, si confonde tra sole e ombra) sfuggiva più facilmente alla «conta» del latifondista. Finita l'esigenza, la gallina indisciplinata è stata eliminata.
Ha vinto la produttività sulla storia? «No. Prendiamo la pecora quadricorna, fa un po' meno latte e si ferisce più facilmente. Ma le specie autoctone sono abituate a vivere nel loro territorio cibandosi di quel che trovano: è forse più produttivo tenerle chiuse in recinti e acquistare il mangime?».
Roberto e Cesare intanto lavorano unendo scienza, storia e tradizioni: «Sostenibilità, biodiversità sono belle parole ma è una vita dura e una grande responsabilità. Io e Cesare progettiamo ogni animale che nasce per evitare il più possibile la consanguineità, e se muore una pecora si perde un quarantesimo della razza». Come si fa a non ringraziarlo e tifare per lui, anzi per loro?
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